Il ministro Cingolani eviti il «bagno di sangue»
Eventi estremi Nei grandi Paesi europei sono stati approvati piani di adattamento climatico. Il nostro titolare della transizione ecologica nella riforma del dicastero non lo ha neanche previsto
Eventi estremi Nei grandi Paesi europei sono stati approvati piani di adattamento climatico. Il nostro titolare della transizione ecologica nella riforma del dicastero non lo ha neanche previsto
«La transizione ecologica potrebbe essere un bagno di sangue». Questa frase del ministro Cingolani dovrebbe portare a una riflessione seria rispetto a scelte così importanti per il futuro del Paese, ma anche al ruolo che dovrebbe svolgere il dicastero creato dal governo Draghi. Di sicuro sono due oggi le strade da intraprendere per accompagnare la decarbonizzazione, di cui abbiamo urgente bisogno per fermare i cambiamenti climatici, in una direzione capace di creare opportunità per tutti e ridurre gli impatti sui territori e nei settori produttivi di questo scenario.
La prima scelta, non più rinviabile, è quella di preparare i territori ad un’accelerazione di fenomeni di una violenza e frequenza senza precedenti, che in queste settimane ha devastato con alluvioni la Germania e il Regno Unito, con incendi la California e la Siberia, e da noi i boschi di Sardegna e Sicilia.
Sono le politiche di adattamento ai cambiamenti climatici, ossia gli interventi che consentono di ridurre gli effetti di piogge e siccità, grandine e ondate di calore, rafforzando la resilienza dei territori. In tutti i grandi Paesi europei è stato approvato un piano con questi obiettivi, in cui si individuano le aree più a rischio e i progetti prioritari, ma anche i cambiamenti nelle politiche di governo del territorio. A parte l’Italia. E ora, con la riorganizzazione del Ministero della Transizione Ecologica approvata giovedì dal Consiglio dei Ministri, non si prevede proprio di occuparsi del tema.
Se si cerca nella nuova articolazione in tre dipartimenti e dieci direzioni generali non se ne trova traccia. Sarà interessante ascoltare le risposte del ministro dopo il prossimo devastante evento climatico, quando dovrà spiegare come si intende mettere in sicurezza le città e le aree costiere, fronteggiare il dissesto idrogeologico delle aree interne messe a sempre maggiore dura prova da incendi e lunghi periodi di siccità che si alternano a violente piogge.
Non basterà ricordare il lungo elenco di commissari nominati e le semplificazioni per l’apertura di cantieri, perché quelle sono le solite fallimentari ricette del passato. Quelle per cui realizziamo progetti mandati dalle regioni in larga parte inutili e dannosi, solo perché «cantierabili».
La seconda grande questione che il nostro Paese ha di fronte, per evitare il «bagno di sangue» tanto evocato anche da Confindustria, è accompagnare il settore energetico verso una generazione sempre più distribuita e incentrata sulle rinnovabili, e quello dei trasporti verso una prospettiva a emissioni zero, fatta di mobilità pubblica e in sharing, grande spinta alla ciclabilità nelle città e elettrificazione dell’automotive. Una prospettiva che in un Paese come l’Italia, importatore di gas, carbone e petrolio può aprire uno scenario straordinario di investimenti, rilancio industriale e lavoro. Lo raccontano studi e esperienze di successo che stanno crescendo, anche se fino ad oggi è mancata una strategia industriale e un supporto da parte del Governo.
Purtroppo, nessun cambiamento è all’orizzonte visto che nella riforma appena approvata si ripropongono le Direzioni che già stavano allo Sviluppo economico. Non compare la parola fonti rinnovabili, ma tutto viene ricondotto come al solito alle direzioni che si occupano di infrastrutture e incentivi in una visione datata e inadeguata.
Stessa situazione per le trasformazioni delle città e della mobilità che rappresentano oggi una grande sfida nazionale, se vogliamo sul serio ridurre inquinamento e emissioni, dando un’alternativa alle persone per spostarsi. Eppure, nei prossimi mesi il nostro Paese è chiamato a uno sforzo gigantesco per essere parte della rivoluzione in cui si è incamminata l’Unione Europea per ridurre le emissioni al 2030. Dovrà presentare un nuovo piano energia e clima, per arrivare a decuplicare le installazioni di energie pulite, i cantieri per rendere efficienti condomini e scuole, i chilometri di tram e metropolitane. E in cui chiudere davvero le centrali a carbone e farla finita con i sussidi alle fossili.
Solo così si potrà risultare credibili nei prossimi appuntamenti del G20 e della Conferenza sul clima, che si svolgerà prima a Milano e poi a Glasgow, per convincere i Paesi più poveri e riluttanti ad anticipare gli sforzi e fermare la crescita delle emissioni. Saranno banchi di prova interessanti per un governo europeista e per un ministero verso cui crescono preoccupazioni e critiche.
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