Il premier padrone del tempo
Più sorprendente di Berlusconi. Non solo perché più vicino a noi e quindi capace di lasciare un ricordo vivido, quasi urticante, ma soprattutto perché più rapido nell’agire. La velocità. Questa […]
Più sorprendente di Berlusconi. Non solo perché più vicino a noi e quindi capace di lasciare un ricordo vivido, quasi urticante, ma soprattutto perché più rapido nell’agire. La velocità. Questa […]
Più sorprendente di Berlusconi. Non solo perché più vicino a noi e quindi capace di lasciare un ricordo vivido, quasi urticante, ma soprattutto perché più rapido nell’agire. La velocità. Questa è la dote di Renzi. Concentrare più scelte, obiettivi, messaggi, in un lasso di tempo più ristretto, infinitesimale. Dividendo tutto a infinito, anche il rapido Achille non raggiunge mai la lenta tartaruga, che sembra così velocissima. Accorciando a tal misura il presente, Renzi regala così l’impressione di vivere costantemente nel futuro, o nella sua attesa, scegliendo però di dimenticare il passato.
Renzi vince perché ha rinunciato, strategicamente, alla memoria, alle sue liturgie, tempi e ritualità. Non ci sono ricordi, o meglio, non esistono, in Renzi, rappresentazioni pubbliche, cioè politiche, del passato. Tutto è da venire. L’attesa della salvezza. In questo, la citazione di Telemaco che attende il padre è un’autocitazione performativa, una biografia del presente capace di avverare il futuro, più che la constatazione di una condizione generazionale. Il passato non si celebra. Le bandiere non sventolano più per il 1° maggio e quando accade, al meglio traspare una mesta allegria, intrisa di paura. La festa del lavoro trasformata nella cavalcata dei morti.
Questa è la posta in gioco. Il diritto alla memoria, cui Renzi ha rinunciato. Legittimamente. Nessuno ha l’obbligo del ricordo, si tratta sempre di una scelta, di un giudizio di valore, o di una postura esistenziale. Mai di un dovere. Da questo punto di vista, è difficile non riconoscere a Renzi un ruolo cruciale nella storia della sinistra italiana, almeno come capacità di aggregare consenso elettorale attraverso una rottura simbolica di ampia portata. Un nuovo capitale simbolico, un nuovo patrimonio di figure diverse, parole d’ordine contraddittorie, obiettivi e orizzonti alternativi. Post-moderno. Si sa che in Italia le ideologie, come le serie televisive, sono sempre in ritardo di qualche decennio. L’obiezione che Renzi non è di sinistra, in Italia qui e ora, non è credibile, almeno fino a quando non ci sarà una sinistra elettoralmente in grado di rappresentare un’alternativa alla sua proposta di governo. Senza questo, sono parole in libertà. Renzi non è di sinistra, ma è la sinistra.
La soppressione della memoria, delle sue liturgie, riti e lentezze, si accompagna a una piena continuità con i contenuti politici, rispetto agli indirizzi e scelte delle coalizioni, variegate, di centrosinistra che lo hanno a sprazzi preceduto. Questo è il capolavoro: negazione della liturgia, accompagnata da un’esplicita continuità nella dottrina. Senza vergogna. Renzi vince perché – oltre a una manifesta abilità strategica – non si nasconde (più) dietro il paravento delle liturgie. Non è di sinistra e non fa cose di sinistra, a differenza di D’Alema, Bersani e Veltroni che erano di sinistra e non facevano cose di sinistra, ma aderivano alla liturgia di sinistra: bandiere, canzoni, manifestazioni, pacche sulle spalle. In pubblico. Buoni vini, vacanze in barca, ville, salotti, cachemire, scuole private per i figli, in privato. Renzi, per questo, costituisce un elemento di chiarezza nell’offerta politica: la sua coerenza (non essere di sinistra, non fare cose di sinistra, non aderire alla rappresentazione pubblica di un ruolo di sinistra) favorisce – in linea di principio – la nascita di una forza genuinamente di sinistra, alternativa. Una coalizione sociale?
Forse. Ma non per ora, fino a quando non sarà chiaro se si tratti di una battaglia interna, dentro il sindacato, o esterna, per un partito alternativo in grado di catalizzare il disgusto di quanti, piuttosto che votare Renzi, preferiscono non votare. Soprattutto, fino a che non avremo un movimento «dal basso» e una leadership che ne sia espressione genuina, come Podemos o Syriza.
Velocità, quindi. Che si accompagna a molti annunci e pochi fatti, questa è l’accusa, da destra come da sinistra. Ma come distinguere gli uni dagli altri? Davvero si può pensare che annunci e azioni siano, in generale, percepiti in modo distinto? Quando si va veloce, in auto o in treno, gli oggetti si percepiscono senza soluzione di continuità. Quante volte, con il pallottoliere, si sono contati gli annunci e le azioni, mostrando – per i critici – che le prime superano i secondi. È così? E se fosse? Se Renzi annunciasse cento cose importanti per farne dieci, o cinque, o anche una, sarebbero comunque percepite come cambiamenti profondi, attesi, appunto, da anni.
Il consenso si spiega così, con il tentativo di fare un’ultima corsa, mentre la valanga si avvicina, sempre più minacciosa, alle nostre spalle.
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