Editoriale

Il romanzo della disperazione

Angelo Ferracuti. Foto Stefano Dal PozzoloAngelo Ferracuti – Stefano Dal Pozzolo

Lavoro Sono ormai sette mesi che giro per l’Italia per presentare il mio libro Il costo della vita, uscito da Einaudi, che ricostruisce la più grande tragedia operaia del dopoguerra, quella […]

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 5 gennaio 2014

Sono ormai sette mesi che giro per l’Italia per presentare il mio libro Il costo della vita, uscito da Einaudi, che ricostruisce la più grande tragedia operaia del dopoguerra, quella della Mecnavi di Ravenna del 1987, dove persero la vita 13 operai nelle stive di una nave gasiera, e molte volte l’incontro in pubblico si trasforma in un momento assembleare.

Intervengono operai cassaintegrati di aziende in crisi, quelli colpiti da gravi malattie, c’è sempre un mobbizzato, vittima delle violenze in ufficio, un ragazzo precario che ha cambiato venti lavori in tre anni, un disoccupato agitato nel corpo, con gli occhi lucidi, che già col corpo esprime la disperazione che sta vivendo, di solitudine e sconfitta sociale. In questo mio piccolo viaggio in Italia ho visto solo deserti, fabbriche dismesse, come la Burgo di Mantova, occupata da un anno, la tormentata storia della Fincantieri di Ancona, ho girato in una Sardegna brutalizzata da una industrializzazione selvaggia, con la Sares dei Moratti, un’altra specie di Ilva, quella tomba del novecento che è Carbonia, reperto cimiteriale della dismissione, tanto per citare alcuni siti industriali dispersi, in crisi, o dall’impatto nefasto con il territorio.

E’ lo specchio di un paese dell’Europa ai tempi del neoliberismo, il risultato tangibile di un capitalismo selvaggio, e i legami tra politica, affari e malavita organizzata, che ormai da noi sono la norma. Ma anche il frutto delle delocalizzazione selvagge fatte dalle tante «Mosche del Capitale» che, per citare Volponi, «ha avuto vari collassi, varie crisi, perché è così, è ingordo, avido, mangia troppo, molto più di quello che può digerire e poi sta male, e naturalmente fa pagare agli altri sempre le sue sofferenze».

Tra tutte queste storie, quella dell’Isochimica di Avellino mi colpì moltissimo, tanto che arrivato in Irpinia per parlare del mio libro, raccolsi la storia di Nicola Abrate, il leader di questi operai che lavoravano l’amianto a mani nude, ignari del pericolo, e che oggi rischiano di morire tutti di mesotelioma pleurico.

Ritrovarli anche a Salerno è stata un’altra ferita. Sentire il loro inascoltato grido di dolore è un peso che mi porto nella coscienza. Cosa posso fare per loro? Perché, a parte la Cgil, la politica, la sinistra, li ha abbandonati? Perché nessun telegiornale nazionale ne parla? Forse l’unica cosa che possiamo fare è raccontare la loro storia, che dovrebbe essere il vero grande romanzo di questi tempi, come lo furono quelli di Dickens, Orwell, Steinbeck. Ma è un romanzo che nessuno vuole più leggere. Non c’è più una società che può accoglierlo, un partito (i suoi eredi carrieristi si dilettano col marketing), di cui restano residuali frattaglie, forse non c’è più nemmeno una lingua per scriverlo. Ma è ancora qui il nostro fuoco, è qui che dobbiamo ripensare il discorso.

 

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