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Jonathan Franzen, normali tragedie

Jonathan Franzen, normali tragedie

Interviste In contemporanea in tutti i paesi in cui viene tradotto, «Crossroads» esce il 5 ottobre: è il primo capitolo di una trilogia in cui l’autore delle «Correzioni» si propone di aderire più compiutamente al suo progetto realista e di favorire un morbido scivolamento del lettore nella trama. Franzen parla qui del romanzo, in cui si racconta la avvincente qualunquità, drammi inclusi, di una famiglia dell’Illinois: da Einaudi

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 26 settembre 2021

L’infinita complessità che si nasconde in vite qualunque, questo sembra interessare Jonathan Franzen: le insospettabili varianti del Midwestern Everyman, che rischiano di apparirci esotiche, nonostante la loro diffusione planetaria, solo perché condividono stili di vita e contesti lontani dalle nostre abitudini. Quanti, per esempio, tra i lettori di Crossroads (traduzione di Silvia Pareschi, Einaudi, pp. 640, € 22,00) hanno familiarità con quella sorta di circoli parrocchiali dove ci si incontra per portare a galla le proprie emozioni e riceverne ascolto, commento, reciproco conforto, sollecitando rituali fatti di abbracci o grida liberatorie o altre diavolerie concepite per approssimarsi in modo più o meno obliquo alle strade del Signore?

Molti più di quanti non immaginiamo noi disincantati cittadini europei di casa nel mondo delle lettere: proprio questo accade a Crossroads, circolo ricreativo annesso a una congregazione protestante, nella cittadina di New Prospect, Illinois, dove si svolge l’ultimo romanzo di Franzen. Dal Natale alla Pasqua del 1971, i componenti della famiglia Hildebrandt si affacciano a turno sulla pagina a presentare le loro vicende, sotto il controllo di un narratore in terza persona che, come in tutti gli equilibrati intrecci tradizionali, spesso cede loro la parola, ritraendosi dietro le quinte per poi tornare a riprendere le fila del personaggio di turno.

Crossroads è infatti un romanzo volutamente sprofondato nella consolatoria prevedibilità ottocentesca, sia per quanto riguarda le vicende occorse ai diversi personaggi, sia nel dosaggio delle loro alterne emozioni, sia nel lessico sapientemente accordato da Franzen – che parla una lingua ben più sofisticata – a giovani e vecchi esponenti di una devozione cristiana innestata di cultura hippy.

Sono i primi anni Settanta, un’epoca di battaglie ideali affiancate, in quel microcosmo idealtipico chiamato Crossroads, dal persistere di convenzioni perbeniste quando non francamente bigotte. Due gli eventi che attirano a sé i personaggi, in una stessa giornata: un ritrovo informale per il clero, al quale si suppone partecipi tutto il circondario della chiesa protestante di New Prospect; e il concerto di Crossroads, meta ben più attraente per i ragazzi in pantaloni a zampa d’elefante e per le loro adoranti adolescenti, con tutto l’inventario di intrighi, invidie e gelosie che nutrono il copione di simili opportunità esibitive.

Tutta la famiglia Hildebrandt è a vario titolo coinvolta in entrambi gli appuntamenti: il padre, Russ, è il ministro associato della chiesa, i cui sermoni condannano la guerra in Vietnam e spesso riportano a galla la nostalgia dei Navajo, presso i quali aveva soggiornato in Arizona. Argomenti che gli avevano assicurato a suo tempo un uditorio entusiasta, ma avevano finito per trasformarsi via via nei «totem scoloriti» di una giovinezza i cui ideali stancavano ormai anche i più motivati militanti. Sua l’idea di coinvolgere il giovane, carismatico Rick Ambrose, rapidamente asceso al ruolo di responsabile della pastorale giovanile, e sempre più sfacciatamente propositivo nell’incarnare – con la sua fisionomia di satiro dotato di lunghi baffi e zoccoli di ordinanza – una alternativa al vecchio pastore, nel cuore dei giovani aggregati a Crossroads.

Le sue seduzioni passano attraverso l’invito a esporre pubblicamente ognuno le proprie vulnerabilità e a condividere ciò di cui ci si vergogna e ciò di cui si è orgogliosi: cose così, che in quegli anni di terremoti esistenziali facevano presa sulle giovani coscienze allo sbando. Tra queste, la diciottenne Becky, unica femmina dei quattro fratelli Hildebrandt, inizialmente laica e votata al ruolo di reginetta della comunità, il cui tramite verso Crossroads è il talentuoso musicista Ivan Tanner con cui finirà per sposarsi; non prima di essersi concessa una serie di visioni mistiche, che la conquistano definitivamente alla parola di Dio.

Degli altri fratelli, l’unico che la ama, probabilmente in modo insano, è Clem, personaggio non immediatamente sollecitante la nostra empatia ma forse il più interessante, proprio a causa di certe sue fragili perversioni, che lo indurranno a compensare la vergogna indotta dalla debolezza del padre – sempre più in difficoltà a fronte delle seduzioni esercitate da Rick Ambrose sui ragazzi – con una assurda dimostrazione di virilità, grazie alla quale si rende disponibile alla leva. Con il rischio di venire spedito in Vietnam a combattere quella guerra contro la quale aveva tante volte manifestato.

Clem si dibatte tra il disgusto per il clan di fricchettoni radunati in Crossraods, l’umiliazione condivisa con il padre, di fatto espulso dalla comunità, il dolore per la necessaria frustrazione del suo amore per la sorella e il senso di colpa per l’inutile sofferenza inflitta alla sua ragazza, che abbandona per prepararsi a scontare i propri immaginari peccati di giovane privilegiato: se non in Vietnam, dove alla fin fine non verrà arruolato, sulle montagne delle Ande, dove si sottoporrà a lavori al limite di ogni umana resistenza.

Umiliazione, vergogna, senso di colpa, aspirazioni alla punizione, tutto il corredo di una religione interpretata nel più corrivo dei modi viene distribuito, con notevole esercizio di letteraria abnegazione, da Franzen ai suoi personaggi: al ritorno a casa da un sofferto appuntamento con quella che vorrebbe diventasse la sua amante, Russ si avventa sul posacenere della moglie e si imbratta la faccia con i residui di sigaretta, poi non contento se li mette in bocca: «Vergogna e mortificazione erano ancora le sue vie d’accesso alla misericordia divina».

Solo il più piccolo dei figli, Judson, non è stato ancora guadagnato alla penitenza; e c’è qualche incertezza anche da parte del quindicenne fratello di mezzo, Perry, il quale – a vantaggio dei piccoli traumi necessari a ogni plot che desideri assicurare un godibile intrattenimento – ci fornisce alcuni motivi di apprensione, drogandosi, spacciando, sbronzandosi e rivelando una notevole propensione alla genialità, ciò che lo rende odioso al padre prima e alla sorella poi.

Caro lo è, invece, e molto, alla madre: Marion legge nella instabilità mentale del figlio una continuità con la propria, teme in Perry quella sofferenza psichica che le si scatenò, nella prima giovinezza, a seguito della relazione frustrata con un uomo sposato. Una relazione approdata all’aborto procuratole da un impostore, che non aveva esitato a abusare di lei, e che Franzen chiama – senza ricorsi a quelle velature simboliche evidentemente superflue alla sua idea di letteratura – «Satana». Sic et simpliciter.

Di tutto ciò veniamo a sapere tramite il racconto che Marion ne fa alla sua psicoanalista, alla vigilia di una emancipazione dal suo passato che la ricondurrà – nel bene e nel male, per il peggio e per il meglio, di nuovo e più inesorabilmente – al suo passato. E poiché questo è già più di quanto non sia lecito dire, passiamo senza ulteriori preamboli la parola all’autore, intervistato via zoom in una pausa strappata alla sua passione per il birdwatching.

 

C’è in «Crossroads» una parola ricorrente, «slippage», tradotta con «slittamento», che mi chiedo se non possa essere considerata come il minimo comune denominatore di tutto il romanzo: riguarda, infatti, nella forma di una devianza psichica, sia il personaggio di Marion che quello del terzogenito Perry; ma è implicata anche nella deriva mistica di Becky e nei ribaltamenti esistenziali di Clem. Per non dire che lei descrive il solo incidente fisico presente nella trama come uno slittamento («slide backword») della macchina di Russ sulla neve, alla fine del suo unico pomeriggio fedifrago: anch’esso uno scivolamento dalla norma.
È vero, non ne ero consapevole: è una linea interpretativa del romanzo del tutto nuova per me, che trovo molto interessante. In effetti, mi fa ripensare a una discussione con la mia traduttrice tedesca proprio sul come rendere il termine slippage, che mi ha fatto capire quanto ritenesse importante tradurlo correttamente. L’immagine di riferimento era per me, allora, quella di una catena della bicicletta allentata, che non è più perfettamente coinvolta nel movimento e perciò esce dagli ingranaggi: risposi di scegliere la parola tedesca che meglio si adegua a questa sorta di deragliamento, e di andare avanti così per il resto del testo. Ma ero beatamente inconsapevole delle implicazioni che mi ha indicato con la sua domanda.

Gliel’ho chiesto perché quando uscì «Le correzioni» lei mi spiegò come il titolo funzionasse a indicare diversi generi di riassestamenti: non solo dei personaggi nei confronti della realtà, ma anche dei mercati finanziari dopo una impennata, e degli istituti penitenziari che si adeguavano all’incremento della criminalità. Qui, il minimo comune denominatore non è nel titolo, ma mi sembrava potesse ritrovarsi seminato nel testo, appunto.
Infatti. Anche qui, peraltro, il titolo Crossroads ha diverse valenze: funziona a indicare come ognuno dei personaggi si trovi, in qualche modo, a un crocevia. La stessa famiglia Hildebrandt, nella sua interezza, è di fronte a un incrocio. Per non parlare di tutte le altre scelte di fronte alle quali si trova il gruppo dei giovani cristiani. Avevo anche in mente la canzone di Robert Johnson che si intitola Crossroads, e l’insofferenza di Russ circa il modo in cui i rockettari trasformano questo bellissimo blues.

Alla fine di quella che sarà la sua ultima seduta psicoanalitica, Marion riferisce del proprio incontro, quando era ventenne, con l’uomo che chiama «Satana», dal quale ha subito ripetuti abusi. La sua analista, Sophie, le chiede di parlarle del suo odio per il Natale, metonimicamente rappresentato da Santa Claus: «Maybe you should tell me about Santa». L’assonanza tra Satana e Santa è lampante. Per di più, il capitolo successivo si apre con il personaggio di Frances che, in macchina con Russ, vede passare il figlio di lui, e esclama: «Oh, c’è Perry… Si parla del diavolo». Non saranno mica coincidenze, vero?
Direi che è stato per me un caso di serendipity, una felice opportunità che mi si è presentata inaspettatamente. Ho pensato a Marion come a una di quelle giovani persone molto profondamente immerse nei dogmi della religione cattolica: per lei Satana era, a quel tempo, una figura importante, tutt’altro che una pura metafora. Quando Marion si ritrova incinta, va a bussare in cerca di aiuto alla casa dove abitava un tempo la sua amica: «La porta si aprí quasi subito; e davanti a lei apparve Satana». Mi è sembrata una riga efficace. Cercando come rappresentare questo uomo, l’ho immaginato grasso, calvo, barbuto. Era quasi Natale, ho realizzato che avrei potuto giocare sull’assonanza tra Santa a Satana; ma non lo avevo programmato, è stata una di quelle felici occasioni che si presentano ogni tanto.

Per restare a Marion e alla sua psicoanalista, una piccola curiosità: a volte la chiama con il suo nome, Sophie, molto spesso invece inventa per lei un epiteto non corrente, come potrebbe essere quello di strizzacervelli: la chiama «dumpling», che in italiano significa «gnocco» e non poteva per ottime ragioni essere mantenuto per una donna. Silvia Pareschi traduce dunque: «raviolo». Suona strano comunque, no?
Il fatto è che, come molti pazienti, Marion si vergogna di raccontare alla sua analista quel che le è successo, o quanto meno ha molte resistenze. Sophie le è necessaria ma al tempo stesso detesta il fatto che lei abbia tutte le risposte pronte: è irritata dalla sua figura pesante, che riempie tutta la sedia, almeno in apparenza felicemente sposata con il suo dentista. Marion ha bisogno di chiamarla in un qualche modo stupido, che gliela renda ridicola. Anche qui, nel parlare di Sophie come di una chair-filling dumpling c’è un gioco di parole analogo a quello con Satana e Santa. Ma per altro verso, mi serviva uno stratagemma puramente pratico per costruire una lunga scena occupata da due donne, e non volevo limitarmi a intervallare i loro nomi, così ho immaginato come Marion potesse pensare a Sophie, e a un certo punto ho trovato questa parola.

Come ha fatto a familiarizzarsi così profondamente con l’atmosfera hippie-dippie di Crossroads. Ha avuto a che fare con qualcosa di simile durante la sua adolescenza?
Certamente. Da giovane, per sei anni, ho fatto parte di una comunità cristiana, e con un certo disappunto ne ho anche scritto in un capitolo di Zona disagio. Spero che nessuno lo abbia notato: sarebbe stato più divertente, infatti, se queste mie descrizioni di Crossroads fossero venute fuori dal niente. Invece… sì, conoscevo le abitudini di questo genere di gruppi, e in Zona disagio raccontai come fossi tutto concentrato sulla mia vergogna, sul mio imbarazzo, sulla mia insicurezza, e quanto fosse stato orribile essere un ragazzo di quattordici anni con tutte quelle pressioni sociali addosso. Sei anni sono un bel pezzo di vita, ma non sono stato capace di farmene qualcosa: fu una esperienza molto più interessante di come non sia riuscito a rappresentarla. Così, tutto quel materiale raccolto era lì in attesa…

 

Non ricordavo quel capitolo. In ogni caso, questo suo nuovo romanzo mi ha dato l’impressione che fosse guidato dall’intento di avanzare di un altro passo nell’indagine di un Everyman del Midwest. È così?
Era precisamente questa la mia intenzione: scegliere personaggi più comuni di quelli dei miei libri passati, personaggi qualunque in un mondo del tutto realistico. Nei miei primi tre romanzi entrava, di fatto, anche qualche elemento fantascientifico, e persino in Freedom e in Purity avevo comunque introdotto elementi importanti della guerra in Iraq, del mondo dei miliardari, e figure internazionalmente famose; ma alla fin fine mi sono accorto che desideravo scrivere solo ed esclusivamente di persone qualunque. Perciò sì, era questo il mio programma. Sono uno scrittore venuto fuori dagli anni Sessanta e Settanta della letteratura americana: la vena postmoderna ospitava molta satira, situazioni estreme. L’idea era che per rendere giustizia della pazzia del mondo reale fosse necessario introdurre nella finzione narrativa elementi altrettanto folli. La mia scoperta del fascino che esercita su di me il realismo quotidiano cominciò gradualmente a metà degli anni Novanta… non voglio dire che sia stata la scelta migliore, ma certamente quella più di mio gusto. Attraverso il lavoro di Paula Fox, Alice Munro, Elena Ferrante, ho capito meglio che tipo di scrittore sono. E, sì, potrei ancora scalare le vette del romanzo sociale, introdurre elementi folli nelle mie trame; ma il fatto è che mi stanno più a cuore le relazioni personali, mi interessa di più come estrapolare un dramma da fatti molto semplici. Forse Crossroads è il libro che sento più vicino, quello che avrei dovuto scrivere durante tutto il tempo che ho alle spalle.

Leggendo questo romanzo ho pensato al suo sforzo nel sintonizzarsi con il linguaggio di personaggi che hanno quella mentalità, quel lessico così elementare. Non era l’unica scelta possibile: la letteratura è piena di situazioni banali descritte con un linguaggio molto sofisticato. Non l’ha fatta soffrire abbandonare la sua lingua così precisa e elegante, la lingua dei saggi che ha scritto in questi stessi anni, per adattarsi alla medietà delle figure che popolano «Crossroads»?
Durante gli ultimi vent’anni mi sono mosso nella direzione di un linguaggio più trasparente, è vero. Mi sembrava di avere mostrato a sufficienza, nelle Correzioni, quali fossero i miei mezzi: lì la mia lingua era sempre al massimo, sembrava che a ogni pagina dovessi ricordare al lettore di cosa fossi capace. Già quando cominciai a scrivere Freedom, mi proposi di mettermi queste performance linguistiche alle spalle. O forse non avevo altra scelta, forse il fatto è che sto diventando vecchio e procedere verso la semplificazione è qualcosa che accade un po’ a tutti gli scrittori… beh, Joyce a parte. Dunque sì, il mio linguaggio si è fatto un po’ più tranquillo, l’esuberanza giovanile se n’è andata altrove, magari appunto perché mi sento più stanco o perché il mio cervello non ha più le stesse prestazioni di una volta. Per la verità, però, non mi sembra sia tanto questo il problema, quanto la necessità di mettere la lingua al servizio di una proposta artistica il cui obiettivo sia di non creare alcun confine tra il testo e il lettore. Direi che è questa la mia priorità: non costringere chi legge a stare sempre all’erta per cogliere le mie performance linguistiche, bensì favorire lo scivolamento nel libro senza sollecitare nessun altro tipo di consapevolezza se non quella che riguarda i personaggi. Solo quando faccio parlare Perry, visto che lo descrivo come un genio, mi sono sentito legittimato a far fare un salto al linguaggio: è stato facile e divertente. Mi ha molto aiutato la lettura dei racconti di Alice Munro, la lezione derivata dalla sua mancanza di esibizionismo: crea situazioni avvincenti con materiali semplici, e tuttavia le sue pagine traboccano di stress, a ogni frase. Tutto questo mi è servito da indicatore, mi ha fatto capire come sia più difficile scrivere frasi originali senza appoggiarsi alla stampella del linguaggio, e come la lingua debba invece preoccuparsi di rendersi adeguata al pensiero dei personaggi, di servire la contingenza. Quando scrivo i miei saggi posso permettermi di esprimermi come Perry, lì non ho bisogno di nascondere la mia intelligenza, non devo fingere che i miei ragionamenti non siano sofisticati e complessi; ma molti personaggi non funzionano così, parlano piuttosto dal regno dei sentimenti.

Il personaggio del quindicenne Perry, dotato di una intelligenza cervellotica e autodistruttiva, il cui capitale ammonta a un ingente quantitativo di droga, e che finirà per avere un crollo psichico, sembrerebbe ricalcare qualcuno a lei caro…
Certo che avevo in mente qualcuno, un amico del liceo, ma non era mentalmente disturbato. Perry invece lo è, la trama lo richiedeva: non tanto quella di Crossroads quanto quella dei libri che seguiranno, perché questo è il primo romanzo di una trilogia. Ma, a parte il personaggio di Perry, ho inventato di più in questo libro di quanto non abbia fatto nei precedenti: sono ormai in un’età dove sono poche le esperienze che non abbia già rappresentato, poche le persone che mi siano piaciute e delle quali non abbia poi scritto in qualche forma. Arrivato al mio settimo romanzo, sono a un punto in cui, seduto alla scrivania, ripercorro mentalmente l’elenco di tutte le persone incontrate finché non mi riesce di mettere a fuoco un personaggio. Puoi inventare tutte le situazioni drammatiche che vuoi, ma se non vedi e non senti i personaggi che le abitano è come se non avessi alcun materiale narrativo a disposizione. Se pensi a qualcuno per cui provi qualche forma di affetto, poi questa si trasferisce abbastanza automaticamente al personaggio che ne viene fuori.

Qual è la sua priorità nello scrivere un romanzo: come rendere vivi i personaggi, come differenziare le loro voci, quali strategie usare per allestire un buon intrattenimento per i lettori…
Se intendiamo l’intrattenimento nella sua accezione più ampia, è questo che più mi sta a cuore: come creare sulla pagina esperienze che i lettori siano felici di condividere. Per arrivare a questo traguardo, quasi tutto il lavoro consiste nello sviluppo dei personaggi: non lo avevo messo in programma quando cominciai a scrivere, fa parte di quel processo di conoscenza di me stesso che dura da quarant’anni, e che mi ha portato a pensare che do il meglio di me come scrittore realista. Tutto il lavoro che ho immagazzinato va nella costruzione dei diversi caratteri: una volta che li ho messi a fuoco, allora posso perdermi in loro, e penetrarne l’animo.

Ora che la scrittura di «Crossroads» è alle spalle, qual è il personaggio al quale si è affezionato di più?
Non ce n’è uno in particolare, per la verità. Posso dirle però che di certo Becky è stata la figura che mi è stato più difficile amare. È strano, ma le ragazze popolari come lei, queste giovani donne tanto attraenti, in un romanzo tendono a non andare molto lontano. Se tutti quelli che hanno attorno le amano, per un autore è difficile simpatizzare con loro. Non è stato facile, dunque, scrivere di Becky, e non è detto che ci sia riuscito.

Forse «Crossroads» è il romanzo nel quale ha descritto le scene di sesso in modo più esplicito: insieme alla felicità, è l’argomento in cui uno scrittore rischia di più di risultare noioso. Lei come ha fatto a evitare questa deriva?
Se c’è un trucco nel descrivere scene di sesso penso che consista nell’anticipare il possibile disagio del lettore. Il metodo – almeno per me – è rendere esplicita l’implicazione di stati emozionali o di qualunque altro elemento della storia, dunque evidenziare che il sesso non è fine a se stesso. L’ultima cosa che vorrei è far pensare che stia giocando con effetti pornografici; ma al tempo stesso, desidero che chi legge si senta coinvolto, eccitato: è difficile, sì, ma non poi così tanto se la priorità è prendersi cura del lettore e insieme proteggere se stessi, sia preservando la propria tensione erotica sia evitando la possibilità di sentirsi in imbarazzo.

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