Editoriale

La bancarotta del risanamento

Pensioni Siamo indebitati, bisogna tagliare. Anzi «risanare». Allora non c’è bancomat migliore

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 4 aprile 2014

Ieri il manifesto ha pubblicato gli ultimi dati Istat sulle pensioni, che hanno suscitato il solito corteo di reazioni. Ci si indigna, si spergiura che le pensioni questa volta «non si toccano».

Sta di fatto che sette milioni di pensionati (il che non di rado significa sette milioni di famiglie) campano – si fa per dire – con meno di mille euro al mese, e che altri quattro milioni stanno sotto i 1500. Soltanto un terzo dei pensionati italiani supera questa soglia, che, se per un verso può apparire di per sé accettabile (la media degli stipendi italiani non ci arriva, nemmeno nel caso di dipendenti maschi indigeni, che guadagnano il 20% in più delle donne e il 24% in più degli stranieri), per l’altro resta bassissima, dato il costo reale della vita, che cresce a ritmi sostenuti nonostante l’inflazione sia ufficialmente prossima allo zero.

Si può cambiare finché si vuole la composizione del paniere, si possono anche considerare nel modo dovuto i servizi essenziali. Ma la miscela tra il taglio delle pensioni e il progressivo smantellamento del welfare a cominciare dalla sanità pubblica sfugge al computo. Per non parlare di quei servizi che non sono mai di fatto entrati nel servizio sanitario nazionale, come l’assistenza odontoiatrica. Servizi che con l’avanzare dell’età diventano vitali. Senza contare un’altra cosa, di cui troppo spesso non si parla.

C’è un’altra miscela, davvero esplosiva. Quella tra pensioni e disoccupazione o sotto-occupazione. Quanti vecchi ormai sono costretti a mantenere i giovani in Italia, direttamente (i figli) o indirettamente (i nipoti) che non trovano lavoro o guadagnano salari da fame? Si diceva prima degli stipendi medi italiani, inferiori ai 1500 euro (in realtà, ai 1300). Ma «naturalmente» i giovani prendono molto meno. La paga media di quei pochi che hanno la fortuna di trovare un impiego stabile supera appena gli 800 euro, con picchi negativi nel Sud, nel terziario e, nuovamente, per le donne. Senza contare la prateria del sommerso, che si espande a vista d’occhio, di pari passo con l’aumento della disoccupazione.

Questa è la verità, alla luce della quale si dovrebbe fare una buona volta un bilancio delle «riforme» delle pensioni, da Dini a oggi.

Cosiddette riforme promosse, guarda un po’, sempre da super-pensionati aurei in flagrante conflitto d’interessi. Che, nel nome della sicurezza dei conti pubblici, si sono fatti sempre anche gli affari propri e dei loro simili, senza battere ciglio.

Tutto questo per quale ragione, considerato che il bilancio dell’Inps al netto delle spese assistenziali non è mai stato in rosso? La risposta è la solita. Siamo indebitati, bisogna tagliare. Anzi «risanare». Allora non c’è bancomat migliore delle pensioni, che sono una grossa fetta della spesa e vanno perlopiù a cittadini con poco potere contrattuale. Sono almeno vent’anni che si spacciano per previsioni diagrammi addomesticati che mostrano come senza ridurre la spesa pensionistica lo Stato andrebbe in bancarotta. Il risultato è questo. Che in bancarotta ci siamo per davvero, e proprio grazie ai tagli e al «risanamento».

Ma sbaglierebbe chi pensasse che siamo in mano a una manica di incompetenti, a dilettanti allo sbaraglio. Non è così. Chi ci ha governati in questo ventennio post-costituzionale e chi ancora oggi ci governa – non importa se di centrodestra o di centrosinistra – ha dimostrato di sapere il fatto suo. C’è non soltanto del metodo, ma anche molta consequenzialità e coerenza. Grazie al tanto celebrato bipolarismo, che in realtà è soltanto un centralismo mascherato.

Gramsci in carcere, quando cercava di capire come funzionava il corporativismo fascista al di là della fanfara pseudo-fordista, si convinse che la sostanza della politica economica del regime consisteva nella protezione della rendita finanziaria medio e financo piccolo-borghese, ma soprattutto «plutocratica». Se guardiamo alla recente storia repubblicana, la diagnosi mantiene tutta la sua attualità.

Quando si parla di debito pubblico, non si parla della gigantesca evasione ed elusione fiscale. Quando si parla di evasione fiscale, magari per criticarne la repressione nel nome di un realismo economico d’accatto, non si parla di debito pubblico. E mai ci si sofferma sulle cause di un debito privato particolarmente contenuto. Come se i vasi non comunicassero. Il risultato è che il debito viene imputato solo alla spesa e che l’unica sedicente politica economica consiste nella sua riduzione e nell’aumento della pressione fiscale sui dipendenti. Con le conseguenze rovinose che vediamo.

Siamo di gran lunga il paese più iniquo e corrotto dell’Europa forte. Col record (oltre che dell’evasione fiscale) dei bassi salari, delle ore lavorate, delle disuguaglianze, della precarietà. Nonché quello che destina meno risorse al sostegno del reddito e alle misure di contrasto della povertà. E che regala più soldi alle imprese private. Metà della capitalizzazione della Fiat, che nel frattempo se n’è andata dove più le conviene, è fatta di capitale pubblico.

Come nell’altro ventennio, quando c’era Lui, piove sul bagnato. Chi ha già molto, accumula a spese dei moltissimi che hanno sempre meno. La qual cosa è, oltre che iniqua, anche irrazionale. Non da un punto di vista bolscevico, ma in un’ottica di buon governo «progressista». Difatti stiamo rapidamente scivolando verso la periferia dell’Europa, per non dire tra le sue colonie interne.

Quanto all’iniquità, è diventata un tabù. Negli anni Ottanta, mentre si preparava l’eutanasia del Pci, si cominciò a parlare di giustizia sociale in termini diversi da quelli della tradizione marxista. Si smise di ragionare di classi e di conflitti, e si assunse la prospettiva della filosofia politica anglosassone. Fu un’operazione a perdere come si è visto, ma allora di giustizia almeno si parlava. Oggi il tema è derubricato. Bisognerebbe chiedersi una buona volta perché. E domandarsi se la giustizia sia un lusso per anime belle o un ingrediente della democrazia. Se la Costituzione possa essere rispettata quando la giustizia sociale è calpestata. E se abbia senso definirsi «riformisti» (non parliamo, per carità, di sinistra) mentre si contribuisce alla sua liquidazione.

 

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