Editoriale

La critica non è tritolo

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Le minacce al tritolo per il pm della procura di Palermo Di Matteo destano apprensione per i tragici precedenti che dimostrano la capacità di Cosa nostra di metterle in pratica. […]

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 15 novembre 2014

Le minacce al tritolo per il pm della procura di Palermo Di Matteo destano apprensione per i tragici precedenti che dimostrano la capacità di Cosa nostra di metterle in pratica. Le contiguità ambientali di cui la criminalità organizzata si giova sono sempre presenti nella zona grigia della società e, anch’esse, contribuiscono ad accrescere i pericoli di chi opera nei palazzi di giustizia della Sicilia e non solo.

Ultimamente, purtroppo, in questa zona grigia sono stato risucchiato anch’io con argomentazioni che prefigurano una specie di accusa di concorso esterno in contiguità «oggettiva» con la mafia, un mix tra libera creazione di fattispecie penale e nesso causale tanto caro al famigerato procuratore Vyšinskij dei tempi di Stalin.

L’occasione per lo scontro è il processo per la trattativa stato-mafia, con vari accadimenti in corso d’opera quali la distruzione delle intercettazioni casuali del capo dello stato con il senatore Mancino e la successiva audizione dello stesso Napolitano come teste per gli «indicibili accordi» adombratigli dal suo defunto consigliere Loris D’Ambrosio: non mancheranno comunque altre puntate, posto che si andrà avanti ancora per alcuni anni.

L’importanza del processo, le sue implicazioni giuridiche, storiche e politiche, la tifoseria mediatica scatenata dal fronte colpevolista persino con la raccolta di un centinaio di migliaia di firme (con relativa adunata pubblica nel corso della quale, sotto lo sguardo ammiccante dal palco di alcuni pm direttamente impegnati nell’inchiesta, la folla festante gridava «vergogna» al sentire il nome di Napolitano), hanno determinato anche momenti di riflessione critica svolti principalmente in una pubblicazione (La mafia non ha vinto; Laterza) di Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca, seguita dagli usuali dibattiti, senza raccolte di firme o raduni di piazza.

Dopo aver partecipato ad uno di questi dibattiti con gli autori e senza acrimonia alcuna verso i pm, su questo giornale e in un’intervista alla Stampa mi ero espresso a favore della distruzione delle telefonate casuali di Napolitano, dato che gli stessi pm le avevano giudicate irrilevanti per il processo e avevo ritenuto superflua e, anzi, strumentale, la richiesta di audizione come teste dello stesso.

Essendo rimasto sempre nell’ambito di una critica legittima sul merito del processo e sul modo di condurlo dei pm, credevo di aver concluso per il momento il mio contributo al dibattito, ma a causa di accadimenti extraprocessuali sono stato risucchiato nelle polemiche con argomentazioni abbastanza inquietanti, anche se non nuove, perché toccano il diritto di critica in contesti di pericolo per l’ordine democratico e l’incolumità personale.

Con il processo in corso, come è noto, è stata resa pubblica la notizia dei preparativi per un attentato al tritolo al pm Di Matteo ed è tornata di attualità l’urgenza della nomina del nuovo procuratore capo a Palermo, poltrona vacante ormai da troppi mesi.
Il pericolo del tritolo è stato subito collegato allo speculare pericolo della critica, accettabile quest’ultima, certo, ma solo se non in mala fede o viziata da ignoranza dei codici, altrimenti fonte di delegittimazione e isolamento dei magistrati e, dunque (oggettivamente s’intende), di un rafforzamento di tentazioni stragiste.

Sgombrato il campo dalla malafede o dall’ignoranza, dato che il nucleo fondamentale delle critiche mosse al processo sulla trattativa è dovuto a docenti come Lupo e Fiandaca, non in odore di mafia né di cattedre occupate per successione dinastica, si arriva al punto fondamentale e ricorrente della questione: si possono criticare i magistrati antimafia e il loro operato ed è logico e intellettualmente onesto legare con un unico filo conduttore critica, delegittimazione, isolamento e, addirittura, il tritolo?
La critica è in grado di determinare un clima di delegittimazione e di isolamento solo in un contesto di mancanza di libertà di stampa e con censura imperante, cosa che non è certo riscontrabile da noi dove, appunto, i giudici antimafia hanno avuto, e continuano ad avere, grande spazio in giornali e programmi tv, alcuni dei quali si sono sempre messi alla quasi esclusiva disposizione della loro bulimia mediatica.

La tv di stato, per esempio, non avrebbe mai intervistato il dottor Ingroia in collegamento addirittura dal Guatemala se non fosse stato un famoso pm antimafia sul fronte giustizialista e, dopo la fallimentare avventura elettorale, non se lo sarebbe preso mai il presidente Crocetta nel suo staff se fosse stato un delegittimato-isolato.

La critica non è né tritolo né violenza ma pensiero libero e in un paese libero non ci sono santuari davanti ai quali deve fermarsi, fossero il terrorismo rosso o nero di ieri o quello mafioso di ieri e di oggi, altrimenti si perderebbe l’abitudine all’uso della ragione. Per quanto possa essere, a seconda dei punti di vista, scomoda o sbagliata va combattuta sullo stesso piano con le armi della dialettica e del confronto, senza ricorrere a impropri e illogici nessi consequenziali quali delegittimazione- isolamento- esposizione a pericoli di attentati.

È lecito dire che i giudici non possono tentare di far rientrare ogni accadimento della vita istituzionale o politica in una fattispecie penale per poi sanzionarlo. Se la giurisdizione può tutto, allora è possibile chiederle tutto, per assurdo che sia: vedi la denuncia grillina del patto del Nazareno alla procura di Roma.

Questa lamentazione palermitana, infine, con la stessa logica lambisce anche il Csm che viene avvisato: o nomina un procuratore capo che condivide il lavoro del gruppo e, in particolare, il processo sulla trattativa, o ci saranno delegittimazione, isolamento, pericoli connessi e, viene da pensare, cavoli amari per l’eventuale capo non allineato. Potrebbe essere anche questa una riflessione delegittimante?

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