La diaspora italiana racconta la cecità di un paese
Dal finestrino di un aereo a Malpensa – LaPresse
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La diaspora italiana racconta la cecità di un paese

Fuga di cervelli Le ragioni profonde non vanno ricercate solo nella mancanza di opportunità economiche ma anche nel rifiuto di dare ascolto alle nuove generazioni

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 11 febbraio 2022

Da quasi quattro anni, Giugno e Novembre li passo contando i giorni che mancano al ritorno in Italia per le vacanze. E dal momento in cui atterro a Malpensa, chi mi incontra non smette di chiedere,«pensi che un giorno tornerai a vivere qui?». A volte fingo di essere infastidita dalla domanda, alla fine la risposta é sempre la stessa, ma mentirei se dicessi che questo dubbio non mi abbia mai tenuta sveglia la notte.

A Settembre 2018 avevo 19 anni, e senza pensarci due volte ho scelto di trasferirmi all’estero, ad Amsterdam dove ho studiato Scienze politiche. Dopo la laurea mi sono spostata in Francia, per passare 10 mesi a lavorare per il servizio civile europeo (Corpi di solidarietà europei). E adesso, mentre mi preparo a scegliere cosa ne sarà del mio futuro, mi stupisco (o forse non più) di come l’Italia non sia nelle mie previsioni.

Quando si parla di fuga di cervelli, è facile limitarsi a indicare i soliti fattori “colpevoli”: la mancanza di lavoro in Italia, gli stipendi più alti all’estero, le tasse più basse oltreconfine. In qualche modo le motivazioni presentate ruotano sempre intorno all’aspetto economico, con uno sguardo non all’individuo, ma all’esperienza generale della diaspora. 

Così chi ci governa riesce a de-responsabilizzarsi per la fiumana di giovani che ogni anno chiudono le proprie valige, e poi la porta di casa dietro di loro.

Da diversi mesi mi chiedo come mai, i media italiani non si interroghino mai sul ruolo delle discriminazioni, della violenza istituzionalizzata e dei politici che dovrebbero rappresentarci, nella “fuga di cervelli”. È semplice scaricare la colpa su altro, su ciò che non possiamo controllare, senza accorgersi che le radici della diaspora sono nel profondo del nostro sistema educativo, lavorativo e sociale. 

A partire da una scuola che educa alla produttivitá, che si impegna a creare una nuova generazione di sfruttati piuttosto che una generazione capace di affrontare i problemi che si troverà di fronte. Che alla base di questa incompetenza scolastica ci sia la volontà di mantenere invariato lo status quo?

É facile parlare di giovani che se ne vanno, ma è ancora più difficile parlare di chi resta. Nelle scorse settimane, decine di ragazzi sono stati manganellati brutalmente dalla polizia in diverse cittá italiane. Protestavano per Lorenzo Parelli, 18enne ucciso da una trave durante l’ultimo giorno di stage alternanza scuola lavoro. La ministra Lamorgese ha risposto che le situazioni di violenza si sono create a causa di “infiltrati” in piazza e che la linea da seguire deve essere quella del “confronto e dell’ascolto”.

Prima costringono i giovani a fare “esperienze di lavoro” durante le scuole superiori, poi piangono quando in questi stage ci muoiono, si chiedono come sarebbe stato possibile evitare questa “tragedia”, poi manganellano senza pietá chi osa chiedere un cambiamento del sistema. É questa la nostra classe politica? La stessa che si lamenta dei giovani che scelgono di andarsene da uno stato dove essere precari diventa uno “state of mind”? Uno stato dove c’è un assoluto rifiuto di “confronto e ascolto” verso chi ha voglia di cambiare un sistema che opprime e non lascia scampo.

L’esodo di massa degli italiani è un tema che mi interessa da diversi anni. Da quando vivo all’estero, mi sono accorta della diversità della fuga di cervelli, non solo di persone ma anche di motivazioni. Intervistando 20 italiani, in 20 paesi differenti, sono riuscita ad avere una panoramica di cosa ci spinga a partire. Le ho raccolte nel libro “Il futuro non può aspettare”, e penso sia fondamentale parlarne per cambiare le narrazioni intorno al fenomeno della diaspora italiana.

Noi giovani (e non) non ce ne andiamo solo a causa della precarietà, c’è chi se ne va perché all’estero c’è meno discriminazione nei confronti delle persone nere, delle persone disabili e di chi fa parte della comunità Lgbtq+. C’è chi se ne va perché in Italia, anche dopo 15 anni di lavoro, fatichi a fare carriera, a far riconoscere i tuoi meriti e a guadagnare un salario degno della tua posizione. C’è chi se ne va perché in Italia, se sei donna di possibilitá ne hai poche, figurati poi quando sei anche madre. E a questo proposito voglio ricordare che in Italia, solo il 57,3% delle donne con figli risulta occupata, il dato peggiore dell’Unione Europea. 

La fuga di cervelli, la diaspora, l’esodo, ci sono decine di modi con cui chiamare il fenomeno del trasferimento di massa degli italiani all’estero, un fenomeno che può e deve essere risolto. Perdere i propri giovani, vuol dire perdere le possibilità di crescita, di miglioramento e di cambiamento della società. E rappresenta un problema anche per noi “expat”, divisi a metà, tra due paesi in cui ci sentiamo di non appartenere a pieno, con la voglia di tornare a casa ma senza le certezze per farlo.

Ma in Italia, chi parla dei giovani che se ne vanno? I vecchi che restano, chi con la precarietà non ha dovuto fare i conti e che ha vissuto una vita, sostanzialmente, da privilegiato. Per questo si arriva all’incomprensione della nostra generazione, in primis manca una volontà di darci spazio, di farci parlare e soprattutto di ascoltarci. Come pretendiamo di risolvere i problemi del nostro paese senza creare un confronto tra generazioni e gruppi sociali? 

L’esodo dei giovani è sicuramente dovuto alla situazione economica del paese, ma non possiamo limitarci a questo, dobbiamo scavare più a fondo e riconoscere quelle cause radicate nella società che ci ha cresciuti. Solo così potremo creare soluzioni effettive, e far tornare a casa chi ha scelto di non tornare.

 

*L’autrice è curatrice della pagina Instagram spaghetti politics

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