La disunione bancaria europea
Se qualche inveterato europeista avesse mai riposto qualche speranza in un progresso europeo nella direzione di istituzioni comuni adeguate alla ripresa della crescita dell’intera Eurozona, le vicende che riguardano la […]
Se qualche inveterato europeista avesse mai riposto qualche speranza in un progresso europeo nella direzione di istituzioni comuni adeguate alla ripresa della crescita dell’intera Eurozona, le vicende che riguardano la […]
Se qualche inveterato europeista avesse mai riposto qualche speranza in un progresso europeo nella direzione di istituzioni comuni adeguate alla ripresa della crescita dell’intera Eurozona, le vicende che riguardano la cosiddetta unione bancaria lo dovrebbero convincere definitivamente del contrario. La storia dell’unione bancaria non è di quelle che eccita passioni, eppure è centrale alle vicende della crisi.
Che le banche siano state protagoniste della crisi è cosa nota. In particolare, negli anni precedenti la crisi le banche spagnole e irlandesi hanno sostenuto un boom del settore immobiliare nei rispettivi paesi indebitandosi con le banche francesi e tedesche. Il crollo del settore immobiliare e la crisi che ne è seguita ha portato molti istituti di credito all’insolvenza. L’intervento dei rispettivi Stati ha trasferito il problema dalle banche al debito pubblico. La crisi economica ha successivamente colpito duro anche sistemi bancari considerati più solidi come quello italiano. Lo stesso governo tedesco è dovuto intervenire con un formidabile impegno finanziario a salvare le proprie banche che avevano allegramente investito anche nei titoli tossici americani. Ma il governo tedesco se l’è potuto permettere, mentre in Spagna e Irlanda il salvataggio ha messo in difficoltà le finanze pubbliche. Le preoccupazioni circa la sostenibilità dei debiti sovrani dei paesi europei periferici ha successivamente – nel 2010 e 2011 – portato gli investitori dei paesi europei più forti a ritirare i loro capitali investiti in questi debiti. Per evitarne i tracollo, attraverso una formidabile offerta di liquidità a buon mercato, la BCE ha invitato le banche ad acquistare titoli pubblici dei rispettivi paesi. La situazione che si è venuta a creare è dunque quella di un abbraccio mortale fra Stati che sostengono banche decotte, e queste ultime che sostengono Stati barcollanti, come due in procinto di affogare che cerchino di aiutarsi a vicenda.
Gli Stati Uniti hanno vissuto nei medesimi anni una crisi simile, col crollo di boom edilizi concentrati in determinati Stati e con relativa crisi delle banche creditrici. Quel paese è però dotato di una unione bancaria, vale a dire di istituzioni federali che trasferiscono il problema a livello federale, incluso il sostegno finanziario alle banche insolventi. In tal modo gli Stati locali, finanziariamente fragili perché privi di una banca centrale, non sono coinvolti dalla crisi. In uno storico vertice nel giugno 2012 l’Europa dichiarò solennemente la propria volontà di spezzare l’abbraccio mortale fra banche e Stati e di costituire una unione bancaria.
Una unione bancaria è costituita da tre istituti: un meccanismo di vigilanza; un meccanismo (regole) di risoluzione delle crisi; un fondo finanziario che consenta di sostenere gli istituti in crisi e di salvaguardare i piccoli depositanti. La vigilanza sulle 130 più grandi banche europee è stata affidata alla BCE che l’assumerà nel novembre 2014 dopo aver condotto un esercizio di valutazione della solidità dei loro bilanci. Sul resto siamo nel buio. Il fatto che la Bce possa rilevare situazioni bancarie critiche senza che meccanismi europei di risoluzione (e relativi fondi) siano già disponibili preoccupa assai Draghi, come i media ci hanno informato nei giorni scorsi.
La questione è che la Germania pretende che l’Europa adotti meccanismi di risoluzione fondamentalmente basati sul far ricadere le perdite delle banche insolventi su azionisti e creditori degli istituti, e la ricapitalizzazione delle medesime sui fondi nazionali, pubblici per ora, costituiti dalle medesime banche nazionali nel lungo periodo. L’intervento europeo, attraverso lo European Stability Mechanism, un fondo di salvataggio per gli Stati già esistente, riguarderebbe casi estremi di banche il cui fallimento possa costituire rischio sistemico per l’Eurozona e nel caso in cui lo Stato coinvolto non fosse in grado di sostenerne il salvataggio. La risoluzione delle crisi bancarie rimarrebbe fondamentalmente locale. D’altro canto il governo tedesco vorrebbe, idealmente, mantenere mano libera nel continuare a sostenere massicciamente con denari pubblici le proprie banche – dato che se lo può permettere – senza penalizzazioni sui (propri) capitalisti finanziari, ostacolando magari più modeste azioni di salvataggio da parte di altri governi sui propri istituti di credito, il pensiero va al Mps. La proposta della Commissione Europea dello scorso luglio è un po’ più avanzata, con un accentramento del meccanismo di risoluzione a Bruxelles e con una messa in comune dei fondi di salvataggio. Il nein tedesco a questa proposta è rigido, come al solito.
La vicenda dell’unione bancaria è parte di una involuzione del dibattito sul futuro dell’Eurozona. Al nein tedesco sull’unione bancaria si unisce quello su un minimo di bilancio federale volto a sostenere i paesi sottoposti a uno sforzo di “aggiustamento”, come eufemisticamente i miei colleghi economisti chiamano una dura austerity. La proposta che era stata sollecitata alla Commissione l’autunno scorso, assolutamente ridicola peraltro, è già nel cassetto. “Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate”. Troveremo noi un Virgilio che ci conduca fuori dalle pene dell’euro a riveder le stelle?
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