Editoriale

La grande emergenza

Venezia Bisognerebbe restaurare la legge Merloni per gli appalti delle opere pubbliche e riformare le procedure. Invece si inventano le droghe per scavalcare i controlli

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 11 giugno 2014

Il cataclisma giudiziario che ha squassato Venezia e il Veneto non era inaspettato per chi aveva criticato il sistema Mose e il Consorzio Venezia Nuova fin dal loro nascere. Ciò che da allora si criticava era, da un lato, la scelta del sistema Mose, per la sua incompatibilità con la natura stessa della Laguna di Venezia e con il suo delicatissimo equilibrio ecologico, dall’altro la scelta della concessione a un unico soggetto privato, il Consorzio Venezia Nuova, del compito di studiare, sperimentare ed eseguire l’insieme degli interventi previsti.

Nessuno immaginava l’enormità della corruzione che l’attuazione di quel progetto e l’istituzione di quel soggetto avrebbero provocato. Per comprendere lo stato delle cose, cioè la dimensione del danno subito e i rischi che si profilano, occorre distinguere i tre aspetti fondamentali della situazione svelata dall’indagine della procura veneziana.

Corruzione

Il primo aspetto è quello della corruzione. I risultati dell’indagine sono davvero strabilianti. Le somme di denaro distratte illegittimamente per essere impiegate nelle varie forme, legittime e illegittime, è stupefacente. La pervasività della corruzione è un segnale preoccupante sull’ampiezza sociale del morbo: sembra che in Italia corrompere o essere corrotti sia la regola, e l’essere onesti l’eccezione. Da decenni per molti adempiere a un dovere d’ufficio non è un obbligo ma un piacere, che deve essere ricambiato. Nell’ultimo trentennio quel «vizietto» originario è cresciuto in modo abnorme, quasi come effetto collaterale della crescita della società opulenta e del disfacimento delle ideologie (cioè della capacità di credere in un progetto di società da costruire con gli altri). L’indagine giudiziaria Mani pulite svelò l’inferno in cui l’Italia era precipitata e condusse alla crisi di quella politica che aveva promosso e alimentato Tangentopoli.

Ma non riuscì a manifestarsi, contro la vecchia cattiva politica, una nuova buona politica. Poche novità positive furono introdotte per riparare i danni. Fra le poche, la buona legge Merloni per gli appalti delle opere pubbliche fu subito annacquata e, poco a poco, interamente rimossa. Il primo impegno che dunque si pone è, a livello nazionale, quello di restaurarla. Ma quale legislatore ha la forza, la competenza e la volontà di farlo? E quale istituzione a livello subnazionale compirà il primo passo necessario, fortemente indiziati di «complicità col nemico», a partire dal sindaco di Venezia?

Grandi opere

Il secondo aspetto è quello delle Grandi opere. Molti dicono oggi: le grandi opere sono necessarie, non si può rinunciare a farle; non è la grandezza dell’opera che la rende necessariamente fonte di corruzioni. Quindi, avanti con le grandi opere limitandoci a colpire solo quelli che Benito Craxi chiamava «marioli». È un atteggiamento che si sta rivelando prepotentemente anche adesso.

Bisogna uscire dalle affermazioni generiche ed esaminare i casi concreti. Se si farà così si scoprirà subito che c’è un nesso profondo tra corruzione e grandi opere. Più grande e costosa è un’opera, più è complessa, più è necessario l’asservimento del decisore formale (il partito, l’istituzione) agli interessi dell’«impresa»: è necessario ungere rotas, distribuire tangenti reali (moneta) o virtuali (assunzione di amici e parenti, viaggi e altri sollazzi). Più l’opera cresce, più risorse ci sono per ungere le ruote. I due interessi del donato e del donatore s’incontrano: più l’opera è grande più ciccia c’è per i gatti.

Lo strumento che più spesso viene adoperato per rendere Grandi le opere è l’emergenza. Già lo si vide ai tempi di Tangentopoli. L’alibi sistematico è la rigidità del sistema delle garanzie, la conseguente lungaggine delle procedure, la sovrabbondanza di controlli. Invece di metter mano a una seria riforma delle procedure, e dei conseguenti apparati tecnici e amministrativi che devono gestirle, si inventano le droghe per scavalcare i controlli. Anziché riformare lo Stato, che si è proceduto astutamente a imbastardire, se ne pratica lo smantellamento: «via lacci e laccioli», «meno Stato e più mercato», «privato è bello». Slogan che sono stati vincenti anche a sinistra. In questa logica l’effettiva utilità dell’opera non conta nulla, né contano i suoi «danni collaterali», e neppure la sua priorità. L’unica utilità è la dimensione dell’opera e la sua possibilità di giustificare l’impiego di procedure eccezionali, dotate di due requisiti: l’opacità e la discrezionalità.

Una moratoria di tutte le Grandi opere in corso di esecuzione o decisione e un attento esame, sono le decisioni che in un paese civile dovrebbero esser prese. Ma l’Italia è un paese serio? Da decenni le cassandre dicono di no; e Cassandra, come è noto, ci azzeccava sempre.

L’oligarchia

Il terzo aspetto rilevante sul quale lo scandalo veneziano offre utili elementi di analisi e valutazione, che sarebbe necessario approfondire per tentar di correggere le storture che ha reso evidenti, è il sistema di potere che ha svelato. L’indagine non è ancora conclusa e si spera che vada fino in fondo. Ma già da quanto ha svelato appare chiaro che le decisioni sugli interventi che trasformano il territorio non erano assunte dai poteri istituzionali, che avrebbero dovuto esprimere l’interesse generale, ma da un gruppo di aziende private: aziende che, avendo abbandonato ogni spirito «imprenditoriale», avevano sostituito al «libero mercato» una spietata oligarchia.

L’indagine aperta dai magistrati veneziani illumina però una parte soltanto del gruppo di potere politico-economico che domina lo scenario veneto. E sarebbe difficile comprendere l’egemonia che il Consorzio Venezia Nuova ha conquistato nell’opinione pubblica veneziana e veneta, nazionale e internazionale senza indagare nella trama dei rapporti tra il mondo delle attività immobiliari, quello delle banche e relative fondazioni, quello dei mass media e quello della cultura e dell’università. Per costruire una mappa precisa del potere a Venezia e nel Veneto non sarebbe però giusto affidarsi solo al lavoro della magistratura, la cui responsabilità si arresta al limite tracciato dalle azioni contrarie alla legge. Non sono solo le truffe e la corruzione diretta le uniche armi di cui dispongono i poteri economici per conquistare il consenso.

Per avviare il risanamento occorrono scelte coraggiose. La prima è quella di mettere ai margini dei processi decisionali gli attori che hanno dato luogo al nuovo perverso sistema di potere. La responsabilità della politica e quella delle persone e delle istituzioni che hanno partecipato a quel sistema di potere sono gravissime. Non colpirle severamente con atti politici contribuirebbe ad accrescere il baratro che già separa i cittadini dalla democrazia.

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