Editoriale

La guerra degli uomini sui corpi delle donne

Una donna sudanese in un campo profughi in UgandaUna donna sudanese in un campo profughi in Uganda – Ap

Stupri e conflitti Dal ratto delle sabine alle guerre mondiali e alle più contemporanee. Il corpo di una donna diventa campo della battaglia e della colonizzazione e la profanazione massima. Atti trasversali a epoche e latitudini che amplificano la violenza sistemica di una società in tempo di pace

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 9 dicembre 2023

Uno stupro è uno stupro. Lo si ripete spesso e, nel caso degli stupri di guerra, il significato primario che ha assunto nella storia quella violenza originaria non cambia. Intanto perché è un fenomeno che viene perpetrato solo da parte maschile. Sembrerà scontato ma è importante ribadirlo laddove si pensa, sbagliando, che ci siano diversi tipi di stupro.

Una violenza sessuale può mutare nel contesto ma è la sopraffazione di un sesso su un altro. Nel caso di questa intersezione, ovvero dello stupro di guerra su cui esiste molta letteratura che va dal ratto delle sabine alle guerre mondiali e alle più contemporanee, in ogni parte del mondo si pratica a indicare un soverchiamento dei ruoli che si riducono nella subalternità causata da un conflitto, quest’ultimo normalmente voluto e agito da uomini.

SUL TEMA c’è un utile documento di Maschile Plurale dal titolo Maschi e guerra in cui, tra le altre cose, si legge: «È tornata l’immagine della guerra come stupro. Ci si è chiesti il perché dell’inefficacia del pacifismo. La guerra resta ancora un “gioco eccitante”».

È proprio il corpo di una donna a diventare campo della battaglia. Della colonizzazione, niente affatto laterale, come della profanazione massima. Diventa un territorio, spesso esotizzante, su cui far detonare il parossismo proprietario e, insieme, far deflagrare tutta la propria impotenza. Ne scrivono le autrici che hanno partecipato alla stesura di Stupri di guerra e violenze di genere (a cura di Simona La Rocca, edito da Ediesse nel 2015) in cui emergono i vari contesti e scenari che storicizzano e aggiungono ulteriori tasselli a fatti già avvenuti.

Di dati completi non ne esistono, per varie ragioni: l’enorme scala di abusi che, solo restando al mondo post 1945, sono stati e vengono perpetrati; la difficoltà delle vittime a denunciare, oblio autoimposto generato dal senso di vergogna; la mancanza sul campo di realtà indipendenti a quelle di chi compie la violenza.

Le Nazioni unite, negli anni, hanno tentato delle stime che da sole dimostrano quanto lo stupro di guerra sia una delle principali armi di eserciti regolari e milizie, con una immediatezza primitiva dell’agire maschile, di una pratica della sopraffazione: tra 250mila e 500mila donne nel genocidio in Ruanda del 1994, oltre 60mila nella guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), fino a 50mila negli anni ’90 in Bosnia, almeno 200mila in Congo dal 1996 in avanti.

Due milioni nell’Europa del secondo conflitto mondiale. Dati illuminanti che non sono che un tassello dell’abuso maschile globale, perché l’Onu avverte: nelle zone di conflitto per ogni stupro denunciato ce ne sono almeno dieci taciuti.

IL DENOMINATORE comune è l’assoluta liceità per cui in un luogo martoriato dalla guerra si sfruttino e si opprimano dei popoli attraverso la messa in schiavitù della parte femminile. Non per ciò che il femminile rappresenta come elemento astratto di un’identità ma proprio in virtù di una precisa azione di sfinimento tesa a distruggere i cosiddetti avversari.

Esplicativo in tal senso è l’abuso di massa più ideologicamente teorizzato del millennio in corso, quello delle donne ezide della regione irachena di Shengal, per mano dei miliziani del sedicente Stato islamico. Oltre 6mila rapite, ridotte in schiavitù e passate di uomo in uomo, per anni, secondo un preciso e studiato piano di azione. Con un obiettivo dichiarato pubblicamente dai media dell’Isis e dai suoi giureconsulti: sfibrare e annullare le reti culturali e sociali di una comunità, violando le donne, occupandone il corpo, disumanizzandole attraverso lo stupro collettivo, sistematico e ripetuto.

Annullarne la volontà significava annullare quella di tutta la comunità, cancellare legami familiari e sociali e imporre una superiorità etnica o religiosa su un popolo considerato subalterno, di per sé inferiore (identico processo maschile collettivo degli stupri agiti da caschi blu bianchi e occidentali nei confronti delle donne africane negli anni Novanta, o quelli dei coloni europei a cavallo tra Ottocento e Novecento tra Africa e Medio Oriente).

Un fine che si ritrova nelle storie locali come in scenari più vasti, a ogni latitudine, come anche dentro le carceri e le prigionie politiche dove lo stupro diviene il principale mezzo di tortura in una realtà di sottrazione della vittima dal mondo fuori.

Non più atto “improvvisato” sul campo di battaglia, nella violazione dei villaggi e delle comunità, ma strategia strutturale e pensata, agita dentro uno spazio chiuso e invalicabile, in cui la prigioniera è privata di ogni controllo di sé, dei tempi e modi della propria quotidianità ma soprattutto del proprio corpo. In carcere lo stupro è la punizione politica, l’umiliazione individuale, l’annientamento di un’idea.

LE DONNE diventano così il simbolo di una disfatta avvenuta da un lato e di una protervia collerica da agire per spianare definitivamente il nemico. Che si utilizzi «metodicamente» in ogni guerra, come in altri contesti diversamente coercitivi, non fa che ribadire ciò che in fondo significa lo stupro: è uno stupro.

Sarà pure trasversale ai secoli ma ciò non vuol dire che sia un «effetto collaterale» accettabile visto che mima e casomai amplifica la violenza sistemica di una società in tempo di pace. Non significa neppure che esistano gradi di diminuzione in tutto questo male. E ciascuno andrebbe ascoltato e raccontato.

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