La liberazione in un’immagine rivoluzionaria
Donne a Riyadh Dalle nuove generazioni una spinta contro oscurantismo e ipocrisia del regime saudita
Donne a Riyadh Dalle nuove generazioni una spinta contro oscurantismo e ipocrisia del regime saudita
Una ragazza con la minigonna, il ventre scoperto e i capelli al vento non si era mai vista in Arabia saudita. Ma, potere dei social network, l’immagine di «Model Khulood» è apparsa su Snapchat ed è diventata subito virale. Un’immagine per noi usuale può diventare una icona rivoluzionaria per le donne saudite. Proprio come era successo per le donne al volante. Complice l’oscurantismo dei regnanti sauditi disposti a tollerare tutte le perversioni maschili (purché non siano praticate da sciiti) ma non la seppur minima libertà delle donne. Le saudite per fare qualsiasi cosa devono essere accompagnate dal loro «guardiano», persino per guardare Internet. E così Khulood è uscita di prigione per aver affermato di non aver postato lei la sua immagine, che ha visto solo in compagnia del suo «tutore».
Vero o falso che sia svela tutta l’ipocrisia del regno saudita.
Ed è probabile che la storia non finisca così perché ha già scatenato le ire dei religiosi protettori del wahabismo, che è religione di stato. Tanto più che la «provocazione» di Khulood è avvenuta nel castello di Ushayqir, un sito storico a circa 150 chilometri a sud di Ryadh, nella provincia di Najed, che ha dato i natali alla dinastia dei Saud e alla nascita del regno saudita, oltre ad essere la culla del wahabismo, la versione più arcaica dell’islam. In nome del quale i sauditi stanno scatenando un nuovo conflitto interarabo contro gli altrettanto oscurantisti qatarioti ma legati alla Fratellanza musulmana.
Dopo l’apparizione di Khulood i più ortodossi hanno subito chiesto il ripristino dell’Haya, il Comitato per la difesa della virtù e la prevenzione del vizio, il cui potere è stato ridimensionato dal principe ereditario Mohammad bin Salman. Non che cambi la morale, imposta soprattutto alle donne, che devono obbligatoriamente portare l’abaya, il velo nero che copre dalla testa ai piedi, ma forse una timida risposta ai metodi brutali usati dalla Moutawa.
Il regime non potrà opprimere più a lungo la voglia di libertà delle giovani generazioni saudite, mi aveva detto Haifa al Mansour, la regista saudita del bel film La bicicletta verde. La determinazione della giovanissima Wadjda per avere la bicicletta si riscontra infatti nei gesti di ribellione che si ripetono nella penisola arabica. Nel dicembre scorso era stata la ventenne Malak al Sheri a postare su Twitter una sua foto con un vestito a fiori sotto una giacca moderna, senza velo e con occhiali da sole. Era stata arrestata per oltraggio alla morale.
Di fronte a questi gesti simbolici si moltiplica il dibattito sui social e si mobilitano le donne, contro chi vuole imporre l’abbigliamento integrale e senza ricami, vietare il trucco, impedire l’occupazione e altre angherie che fanno dell’Arabia saudita il paese più repressivo nei confronti delle donne. Sono nati blog che denunciano la violenza contro le donne e una campagna contro la violenza domestica, che dal 2013 costituisce reato.
Il paradosso è che la donna per denunciare la violenza del marito deve andare alla polizia accompagnata dal suo guardiano, che è per l’appunto il marito. Persino tra le donne della casa reale si trovano sensibilità che non sembrano contagiare il regime. «Annullare il divieto di guida per le donne, promuovere la classe politica femminile e vivere in una società che garantisca pari diritti per tutti» sono gli obiettivi della principessa saudita più «rivoluzionaria», Ameerah al Taweel.
Sarebbe auspicabile che i social mettessero in rete la modella Khulood, con le algerine in bikini contro il burkini, la tunisina Amina e molte altre che lottano per i loro diritti.
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