Editoriale

La lobby più potente del mondo

Poteri L’esercito degli Stakeholder, 60 a 1 per la finanza

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 9 aprile 2014

Sono 1.700 addetti per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività. Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato il 9 aprile da Corporate Europe Observatory – Ceo e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”, che siamo in grado di anticipare.

Se è banale, se non ingenuo, sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è leggere i dati e le cifre in gioco. Ogni regola, Direttiva, o ricerca passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa potenza di fuoco. «Probabilmente la lobby più potente del mondo»; parole non di un qualche gruppo di complottari, ma del Commissario europeo Algirdas Semeta.

Così come non sono gruppi di complottari ma decine di parlamentari europei di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrivono un appello nel quale testualmente si segnala che «possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano. Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia».

Questo pericolo diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto di Ceo. In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 50 a 1.

Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento europeo su una Direttiva riguardante hedge fund e private equity, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario.

Al Parlamento europeo sono attivi gruppi come il European Parliamentary Financial Services Forum (EPFSF) che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per «promuovere un dialogo tra il Parlamento europeo e l’industria dei servizi finanziari».

Questo dialogo comprende ad esempio inviti ai parlamentari per «seminari educativi sul trading dei derivati». Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali JP Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri. E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in Ue nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili.

Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.

Analogamente, il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 2 milioni per Ong, società civile e sindacati. Un rapporto di 60 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, Ong e sindacati.

Lo squilibrio è se possibile ancora più impressionante quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti” ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, Bce o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche. In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo. Nel De Larosière Group on financial supervision in the European Union 62 membri dal mondo finanziario, 0 da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse; sulla Mifid, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5; nel gruppo di esperti sui Derivati, 86 esperti del mondo finanziario, 0 tra Ong, consumatori o sindacati. Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati.

Se possibile va ancora peggio alla Bce, che ha promosso degli Stakeholder Groups. La parola stakeholder viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. Il gruppo presso la Bce prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca centrale europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei.

I risultati? Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci. Il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi continua a lavorare indisturbato, mentre al culmine del paradosso sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita a ritrovarsi con il cerino in mano e a dovere accettare sacrifici e austerità.

La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di Direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati. La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto. A settembre 2013 il Commissario europeo Barnier annuncia tranquillamente in un comunicato stampa che «dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra». Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo, a cinque anni dal fallimento della Lehman Brothers e oltre sei dallo scoppio della crisi, la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse.

Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio. In una recente intervista, Luciano Gallino ricorda che «il paradosso è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli stati». Da oggi riusciamo a capire un po’ meglio con quali mezzi e risorse tale straordinaria operazione di marketing sia stata e continui ad essere realizzata.

(Il rapporto integrale è disponibile su: http://corporateeurope.org)

 

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