Editoriale

La permanenza della guerra

La permanenza della guerra/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2014/07/18/19seconda apertura gaza reuters – Reuters

Guerre umanitarie La barbarie temuta è arrivata. Di fronte alla permanenza dei conflitti, di quale equidistanza si può parlare?

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 19 luglio 2014

Alla fine, dodici anni dopo, ecco il risultato della sconfitta del più grande movimento contro la guerra, nella fattispecie in Iraq, che scese in piazza con cento milioni di persone e che venne definito «la nuova potenza mondiale». Hanno vinto i neocon della destra americana e quei governo di centrosinistra che in Occidente hanno sposato la causa del «militarismo umanitario» che ha profumato di buono le stragi della nostra epoca: la guerra è diventata permanente e dilaga.

E torna ovunque e all’improvviso. All’improvviso? La sua sanguinosa attualità è tragicamente presente ogni giorno nonostante il silenzio dei governi complici e spesso dei media, come Repubblica e Corriere della Sera, che sono arrivati a cancellare le stragi di Gaza dalla prima pagina. Spesso anche a sinistra la guerra è l’ultimo dei problemi, da aggiungere all’ultimo momento in un documento, o in una presa di posizione, nell’incapacità di interpretare le correlazioni che legano, in un filo d’orrore, i diversi conflitti della terra ai cambiamenti politici per cui si lotta. Ma il precipitare degli eventi rende evidente la generale miopia che attraversa la cultura occidentale. Che promette e annuncia crescita economica ma nasconde la violenza che altrove si esercita per ottenerla a qualsiasi costo, tacitando il pericolo e ottenendo consenso e potere. Così la permanenza della guerra resta e riemerge, riaprendo ferite malamente suturate e abilmente occultate.

Lo Stato d’Israele, che non conosce altro che la legge dei carri armati, muove i tank per rioccupare la Striscia di Gaza e lo fa perché ha «diritto a difendersi», fa sapere lo stesso Obama che nel discorso del Cairo del 2009 dichiarava di sentire «il dolore del popolo palestinese, senza terra e senza patria». Sono passati cinque anni dall’inizio della sua Amministrazione e la crisi mediorientale vede non solo sempre un popolo senza terra né patria, ma la crisi è peggiorata perché la colonizzazione è stata estesa, i Muri di divisione sono raddoppiati e, scrive l’editorialista di Haaretz Gideon Levy, «Israele non vuole la pace, chi estende le colonie rafforza l’occupazione e chi rafforza l’occupazione non vuole la pace». I razzi di Hamas sono il fumo, certo distruttivo e micidiale, che nasconde questa verità: lo Stato di Palestina, ridotto ad una alveare di insediamenti, non ha più alcuna continuità territoriale e non potrà esistere più.

Sono 270 le vittime dei bombardamenti aerei israeliani, in gran parte civili comprese decine di bambini. Pensate solo a quanto odio è stato seminato dai bombardieri in questi giorni. E di che equidistanza stiamo parlando? C’è uno Stato, quello d’Israele che occupa le terre di un altro popolo che, anche secondo la Carta dell’Onu ha il diritto a ribellarsi. Qualcuno dica a che cosa hanno portato finora i finti negoziati di pace, con un governo israeliano sordo ad ogni richiesta di ritiro secondo due storiche Risoluzioni dell’Onu o di blocco delle colonie e rabbioso – Netanyahu è letteralmente fuori di sé – per la nuova unità nazionale palestinese Fatah-Hamas. Ma, certo, Israele ha diritto alla sua sicurezza. E i palestinesi, che non si danno per vinti, a che cosa hanno diritto?

E proprio mentre dilaga la nuova guerra mediorientale, l’abbattimento criminale di un aereo di linea malese sui cieli tra Ucraina e Russia, con quasi 300 vittime – già con rimpallo di responsabilità – obbliga a volgere lo sguardo in Europa. Già nei giorni scorsi erano decine i morti nell’est dell’Ucraina, negli scontri tra milizie separatiste e nazionaliste filorusse nate nel Donbass in contrapposizione al nazionalismo ucraino antirusso del movimento di Majdan ormai al potere a Kiev, sostenuto dal’Ue e soprattutto dalla Nato che porta avanti l’indiscussa e indiscutibile strategia dell’allargamento della sua strategia militare a est, proprio alla frontiera russa. Una volontà che è all’origine, non a conclusione, delle tensioni e del conflitto in corso.

E appena si volge lo sguardo dall’est europeo all’altra sponda del Mediterraneo, l’instabilità della Libia – santuario militare di ogni sollevazione jihadista nell’area – diventa macroscopica. Siamo a soli tre anni dall’abbattimento del regime di Gheddafi grazie all’intervento degli aerei della Nato diventati l’aviazione degli insorti jihadisti in guerra contro il raìs. Guidava allora la nuova coalizione bellica occidental-umanitaria, con l’Italia protagonista, il «disinteressato» Sarkozy. Che riuscì a convincere un iniziale recalcitrante Obama che poi, con Hillary Clinton, ha pagato il prezzo di questa avventura con i fatti di Bengasi dell’11 settembre 2012.

Giovedì le milizie islamiste di Misurta, le più armate e radicali, hanno occupato Tripoli, dove un illegittimo e improbabile governo chiede l’intervento internazionale. Intanto si combatte in Siria e le milizie qaediste dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante avanzano in territorio iracheno, mentre in Afghanistan le ultime elezioni presidenziali sono accusate di brogli e le truppe Usa e Isaf/Nato resteranno ancora per altri due anni.
Non c’è pace. È un disastro. Permane solo la barbarie che temevamo sarebbe arrivata se non si fosse costruita una alternativa di valori e di sistema. In questi giorni noi ci rivoltiamo al dissennato tentativo del presidente Renzi di manipolare la nostra Costituzione con la cancellazione della eleggibilità diretta e democratica del Senato. Riflettiamo allora per un attimo sul fatto che per ognuna delle guerre che abbiamo elencato l’Italia è stata o è protagonista e ha un ruolo militare.

Non solo in Iraq ma anche in Medio oriente dove partecipa ad un Trattato militare con Israele, nonostante sia un paese in guerra permanente; in Libia ha bombardato dopo avere applaudito al regime dell’ex raìs, in Siria è ancora nella famigerata coalizione degli «Amici della Siria» che ha alimentato il conflitto; mentre in Ucraina l’Italia sostiene, senza che se ne discuta, l’Alleanza atlantica che pericolosamente allestisce da anni la sua nuova, provocatoria, cortina militare alla frontiera russa come se fosse la nuova Guerra fredda. Riflettiamo allora su quanto sia stato devastato l’articolo 11 della nostra Costituzione che bandisce la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali. E ribelliamoci. Cancellano il Senato perché, dicono, «produce ceto politico». Mentre cresce solo la guerra, cancellano l’articolo 11 per produrre ceto militare e nuovi conflitti.

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