Editoriale

La provincia americana

La parabola del Muos riporta intatti, come in una commedia dell’arte, tutti i tipi umani, i luoghi comuni, le frasi di circostanza e di menzogna politica con cui s’accompagna da […]

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 10 agosto 2013

La parabola del Muos riporta intatti, come in una commedia dell’arte, tutti i tipi umani, i luoghi comuni, le frasi di circostanza e di menzogna politica con cui s’accompagna da sessant’anni ogni nostra querelle con gli alleati americani. Che continuano a considerare la Sicilia (e la penisola, e tutti i governi che ne guidano le sorti) come portatori di un vassallaggio necessario. Necessario nella guerra al terrorismo islamico, a costo di trasformare le strade di Milano nella più parodistica operazione della Cia a memoria d’uomo (il rapimento di Abu Omar e il comitato di benvenuto organizzato dal Sismi di Pollari). Necessario a dar fiato e pecunia alla costruzione di un numero imprecisato di F35 (voluti da un governo di centrosinistra, poi di centrodestra, poi di larghe intese). Necessario a riconsiderare il Mediterraneo come un mare di guerra nel quale l’Italia deve protendersi come una magnifica portaerei (parole del nostro scialbo ministro della Difesa).
Un vassallaggio oggi dovuto per intercettare, decrittare, spiare cieli e satelliti costruendo un radar alto come un palazzo di quattro piani nelle campagne di Niscemi. E poco o nulla importa che sulle conseguenze del Muos per la salute di uomini e cose si siano espressi, con argomenti preoccupati, ricercatori di molte università. Importa poco perché quei rischi hanno il torto di parlare al futuro, di raccontare danni alle vite umane che racconteranno i censimenti tra dieci o vent’anni. E siccome dieci o vent’anni sono solo una linea d’orizzonte nebulosa, oggi a Niscemi come ieri a Taranto attorno ai cantieri dell’Ilva e l’altro ieri nelle pieghe del polo chimico di Priolo, i rischi per la salute si riducono a una lotteria, una vaga premonizione, una cosa che ancora non c’è, non si misura, non si piange, non si seppellisce per cui avanti con le ruspe che chi parla male è solo un menagramo.

Fermare quei lavori, riconsiderare le licenze concesse al governo americano, riscattare quel lembo di Sicilia e la vita di chi vi vive sopra non è una battaglia di testimonianza, un reducismo da scontenti.
È il principio d’una politica responsabile che pretende di considerare la salute e la dignità di una popolazione beni comuni, intangibili, inalienabili. Così oggi non è. E non c’è da stupirsene.
Ieri a Comiso c’era Pio La Torre, che portò nelle piazze di Sicilia mezzo milioni di persone per spiegare che quell’isola sarà pure terra mafiosa e disperata, ma non così miserabile da rimanere in silenzio di fronte alla scelleratezza dei Cruise. Oggi invece c’è Crocetta che come l’uomo di Pirandello s’infila e si sfila il berretto a sonagli a seconda degli umori del loggione trasformando questa sfida di civiltà in una gag da cabaret. Insomma, trent’anni dopo la battaglia sui Cruise gli americani non sono cambiati. Noi sì. In peggio.

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