La semina del presidenzialismo
Magari siamo già in un sistema presidenziale per il ruolo politico del Quirinale, certamente sembra di vivere in un paese che ha eletto il capo del governo: o si votano […]
Magari siamo già in un sistema presidenziale per il ruolo politico del Quirinale, certamente sembra di vivere in un paese che ha eletto il capo del governo: o si votano […]
Magari siamo già in un sistema presidenziale per il ruolo politico del Quirinale, certamente sembra di vivere in un paese che ha eletto il capo del governo: o si votano le riforme o andiamo alle elezioni avverte Renzi, perché «tutti devono sapere che comunque si vota, o le riforme o le elezioni anticipate» chiosa il presidente del partito democratico. O le riforme o il voto è solo l’ultimo ricatto propagandistico di chi si rappresenta come il padrone dell’Italia.
L’arroganza del personaggio e la torsione autoritaria del suo progetto di revisione della Carta sono noti e ormai diffusamente riconosciuti da una larga opinione pubblica. E tuttavia va sottolineata la funzione ideologica di questa esibizione di forza, di questo atteggiamento oltranzista e ricattatorio (dopo di me il diluvio).
>Lo spiega bene un altro campione di democrazia, Sergio Marchionne. Dopo gli incitamenti del Presidente della Repubblica sulla necessità e l’urgenza di queste, pessime, riforme, è l’amministratore delegato dell’azienda automobilistica a spronare il presidente del consiglio. Marchionne, che è un fan di Renzi, lo invita a «tener duro» (il linguaggio è tutto), e lo rassicura sostenendo che se per bastonare gli operai avesse dovuto aspettare le riforme sul lavoro sarebbe ancora «impaludato». (Poi finalmente è arrivato il ministro Poletti e il più è stato fatto). Dunque le riforme, prima ancora che per i frutti promessi servono per la manipolazione del terreno che seminano. Non ha avuto bisogno di riforme Renzi per usare la vittoria alle primarie del Pd per reclamare il governo del paese.
Se il capo del governo fosse arrivato a Palazzo Chigi dopo elezioni politiche, potremmo ritenerlo almeno parzialmente legittimato a reclamare le “sue” riforme. E il condizionale è d’obbligo visto che non è il Governo, ma il Parlamento il titolare della proposta di riforma costituzionale così come è l’attuale Capo dello stato la carica deputata a decidere il ricorso alle urne.
Fare la voce grossa, minacciare le opposizioni, mostrare insofferenza per le scelte della seconda carica dello Stato (consentire il voto segreto su alcuni emendamenti), significa esibire al popolo il segno del comando. Il presidente Grasso ieri ha cercato di salvare capra e cavoli, ostruzionismo e regolamento alla fine di un tumultuoso via vai tra il Quirinale e palazzo Madama. Ne ha ricavato l’ennesimo ammonimento del Quirinale che in serata ha diffuso un polemico comunicato «sul grave danno che recherebbe al prestigio e alla credibilità parlamentare il prodursi di una paralisi decisionale sulle riforme». Vale ricordare che proprio Grasso osò pronunciarsi contro un senato non eletto.
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