Editoriale

La sinistra alla prova regionale

La sfida portata dal renzismo è a tutto campo, e a poco serve la denuncia, è più che mai urgente la ridefinizione del campo dell’alternativa. Magari cominciando, in prossimità di […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 27 febbraio 2015

La sfida portata dal renzismo è a tutto campo, e a poco serve la denuncia, è più che mai urgente la ridefinizione del campo dell’alternativa. Magari cominciando, in prossimità di un’importante tornata di elezioni amministrative, proprio dal livello locale. Il potere esercitato dal partito unico delle classi dirigenti, e dai suoi cacicchi, sugli enti locali è infatti uno dei puntelli principali del nuovo assetto del potere centrale. Da lì si esercita l’arte del bastone e della carota. Il potere esercitato dal partito unico delle classi dirigenti, e dai suoi cacicchi è uno dei puntelli del nuovo assetto del potere centrale.

Da lì si esercita l’arte del bastone e della carota.
Il bastone delle privatizzazioni, degli appalti anti-economici, della precarietà e delle sue forme estreme, che Antonio Bevere di recente riformulava come nuove schiavitù (il “lavoro gratis”). E la carota del clientelismo, della “consulenza” maxi e mini come scorciatoia alla ri-creazione di un blocco sociale in via di progressivo sfarinamento. Anche approfittando del battage pubblicitario delle “archistar” amiche, chiamate a dar lustro al regime tramite opere di dubbio impatto sociale.

Troppo a lungo le forze di alternativa si sono illuse di poter lucrare un qualche vantaggio dalla partecipazione subordinata alla gestione locale del potere, a meno di considerare tali le rendite di posizione di mini-apparati burocratici autoreferenziali. La riscoperta del valore popolare e contestativo delle autonomie locali dovrebbe entrare di diritto a far parte di un più vasto disegno di ripresa dell’alternativa politica.

E sì che la storia del movimento operaio del nostro Paese sarebbe in tal senso ricca di fermenti da riproporre, aggiornati alla nuova stagione di lotte. Non solo di “buona amministrazione” si sta qui parlando. Anche di questo, certo: l’orgoglio che anche i subalterni potessero dar prova di sapienza amministrativa, apprendendo a farsi classe dirigente attraverso la palestra del “comune democratico”, costituì una potente leva per il municipalismo socialista e poi comunista. Ed un profondo rinnovamento del personale amministrativo si rende necessario ancor oggi, a fronte del più sfrenato trasformismo e dell’infeudamento dei gruppi dirigenti locali al partito-dello-Stato e agli interessi delle élite economico-finanziarie che lo sostengono. Ma, più in generale, è la teorizzazione delle autonomie locali come contro-potere a prestarsi ad un’opera di attualizzazione. Oggi come allora infatti, per usare le parole di Filippo Turati, l’ente locale appare «servo dello Stato, qualche volta servo riluttante e non mai ribelle; precettore, amministratore, poliziotto, in gran parte per conto dello Stato, quasi tenesse il potere per tolleranza di questo; non reagisce né influisce sul governo, non sente bisogno di autonomie, non lotta per la propria libertà».

Se poi dal Comune di passa alla Regione, il giudizio sugli indirizzi perseguiti nell’attuale stagione varia di poco. Sempre è stata viva, a sinistra, la preoccupazione che l’istituto regionale si configurasse come una sommatoria di burocrazie meramente sovrapposte a quelle dello Stato centrale. Per ovviare a questi rischi, la battaglia regionale fu da subito legata da un lato a quella per la pianificazione economica e territoriale – fu in questo senso il Pli di Malagodi il più aspro e conseguente avversario del varo delle regioni; dall’altro ad una esigenza di maggiore partecipazione popolare – è significativo che alle regioni si arrivi al culmine del “secondo biennio rosso” (1968-1969). Il rovesciamento a cui oggi assistiamo in questi campi è totale: i consigli regionali ridotti a casse di compensazione per un ceto politico ipertrofico e desideroso di banchettare sulle spoglie dello Stato; deregulation economica ed urbanistica promossa in concerto tanto dallo Stato centrale quanto dalle amministrazioni periferiche; leggi elettorali regionali che in molti casi mortificano la libera espressione della volontà elettorale, ben oltre i limiti già scandalosi del modello nazionale su cui vengono ricalcate.

Non basta tuttavia ispirarsi alla lettera della lezione della storia per invertire le attuali tendenze regressive; né denunciare moralisticamente lo stato di cose esistente. E’ la stessa riflessione critica sul passato del nostro movimento operaio a consegnarci una duplice eredità, da tener di conto ora più che mai. Gli avanzamenti del potere popolare a livello locale, infatti, sempre sono stati in connessione con lo sviluppo delle grandi mobilitazioni sociali, e con l’emergere di gruppi dirigenti nuovi in simbiosi con le aspirazioni emerse dal conflitto. E sempre si sono rilevati assai fragili, in assenza di una strategia nazionale al cui interno potessero essere inquadrati.
Ancor oggi, i rischi dell’irrilevanza politica e del rifugio nel localismo procedono di pari passo. La dialettica tra il momento locale e quello nazionale nella sfida politica di alternativa può assumere però contorni virtuosi, a patto che si incarni in una serie di candidature legate a movimenti di resistenza concretamente dispiegati sui territori, ed allo stesso tempo unificate da un disegno complessivo di cambiamento politico.

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