L’accordo sulle riforme ha partorito un mostro giuridico
Riforme Si è venuta a determinare una situazione paradossale, costituzionalmente insostenibile. Se il Senato dovesse effettivamente approvare la legge elettorale prima della conclusione dell’incerto percorso di riforma del bicameralismo, ci troveremmo con due complessi normativi per l’elezione dei due rami del Parlamento tra loro totalmente incompatibili
Riforme Si è venuta a determinare una situazione paradossale, costituzionalmente insostenibile. Se il Senato dovesse effettivamente approvare la legge elettorale prima della conclusione dell’incerto percorso di riforma del bicameralismo, ci troveremmo con due complessi normativi per l’elezione dei due rami del Parlamento tra loro totalmente incompatibili
Sembra che l’«autonomia del politico», dopo aver consumato un forte distacco dalla società, stia ora cercando di affrancarsi anche dal diritto. Un’impressione che, da ultimo, trova conferma nel dibattito sulle riforme istituzionali, dove i principali compromessi politici sono stati raggiunti tutti a scapito delle ragioni del diritto, delle sue regole di rigore e logica.
Basta pensare al delicato intreccio che tiene unite la riforma elettorale e quella costituzionale, che rappresenta – a quel che è dato sapere – la base del misterioso “patto del Nazzareno”. Da un lato le forzature ipermaggioritarie e incostituzionali per favorire i due principali competitori (il giorno della sottoscrizione del “patto” Renzi e Berlusconi, oggi non è più così), dall’altro la scelta di non far più eleggere direttamente i senatori. Quest’accordo politico – peraltro assai precario – ha creato un mostro giuridico. Com’è noto, infatti, al fine di manifestare il “sostegno” di tutti al complesso delle riforme proposte, nel corso della discussione alla Camera, è stato deciso (da Pd e FI, ma con il consenso anche di varie minoranze interne) che l’approvazione delle norme elettorali dovesse riguardare esclusivamente la Camera, dacché i membri del Senato, dopo la riforma costituzionale e nel rispetto del “patto”, non saranno più eletti direttamente.
Dal punto di vista politico a me sembra già un’aberrazione: come si può giustificare che prima di ogni discussione parlamentare, prima ancora della presentazione del disegno di legge costituzionale in materia, si imponga una scelta obbligata di non elettività della seconda Camera? I fatti di questi giorni, che hanno rimesso in discussione proprio i criteri di elettività dei futuri senatori, stanno mostrando il fiato corto di questa così ardita e apparentemente radicale scelta politica. Ma è sul piano giuridico che si sono prodotti gli effetti più negativi. Si è venuta, infatti, a determinare una situazione paradossale, costituzionalmente insostenibile. Se il Senato dovesse effettivamente approvare la legge elettorale prima della conclusione dell’incerto percorso di riforma del bicameralismo, ci troveremmo con due complessi normativi per l’elezione dei due rami del Parlamento tra loro totalmente incompatibili che farebbero venir meno le stesse finalità di governabilità così ardentemente perseguite dalla maggioranza di larghe intese. Quest’esito palesemente irragionevole e, dunque, incostituzionale non verrebbe meno neppure se, in seguito, si approvasse una riforma del bicameralismo perfetto, fosse anche la più radicale, ma che non prevedesse specificatamente l’esclusione dell’elettività diretta di tutti i senatori.
Dunque, una blindatura di un patto politico (tra Renzi e Berlusconi) che appare fondato esclusivamente su fragili interessi politici personali, che si sono rivelati immediatamente errati: Forza Italia non è più il secondo partito e non può più sperare di sfruttare a suo vantaggio le distorsioni maggioritarie (non le rimane che sperare nel gioco delle soglie di accesso per attirare alleati recalcitranti) e il Partito democratico non troverà una sintesi se non rinnegando il principio della non elettività dei senatori. Quel che rimane è però il mostriciattolo giuridico – che non sarà facile debellare – che è stato generato da un accordo senza diritto. Non è questa vicenda un’espressione assai significativa del divorzio tra le ragioni della politica e le logiche del diritto?
D’altra parte, le fondamenta stesse su cui si sta costruendo l’autonomia della politica dal diritto sono deboli. Non dovrebbe sfuggire, infatti, che le «decisioni» del potere politico, alla fine, dovranno tornare a fare i conti con la grande regola dello «stato di diritto». Nel nostro ordinamento democratico proprio al diritto costituzionale spetta l’«ultima parola». Nessuno può allora illudersi che un accordo politico – oltretutto contestato – possa rappresentare un salvacondotto in sede di giudizio di costituzionalità. E l’incostituzionalità della legge elettorale che si vuole approvare è palese. Non è difficile prevedere sin da ora la sua sorte ove arrivasse alla Consulta. Ma, ancor prima, c’è da considerare che una legge fonte di gravi irrazionalità di sistema, inidonea persino a raggiungere l’obiettivo perseguito della stabilità delle maggioranze parlamentari, foriera pertanto di una possibile paralisi del sistema politico e parlamentare, che finisce per condizionare molti dei poteri presidenziali, quello di scioglimento in particolare, è ad alto rischio di non vedere mai la luce. Non scommetterei, infatti, sulla sua promulgazione da parte del capo dello Stato.
Viene naturale allora interrogarsi sulla ragione di queste forzature. È lo sguardo corto – sempre più corto, ormai quasi cieco – della politica che spiega le spericolate operazioni cui stiamo assistendo. Esagerazioni motivate della debolezza in cui versa una politica arrogante. Quando non si sa cosa fare e non si hanno chiare strategie politiche da seguire, non si può far altro che alzare la voce per cercare di far valere gli interessi del momento.
Fragilità della politica che è un carattere dei tempi nostri e sembra non salvare nessuno.
Se valutiamo quel che è successo sull’altro fronte delle riforme istituzionali, quello della trasformazione del nostro sistema bicamerale, ritroviamo, purtroppo, conferme drammatiche di come le ragioni della politica ormai non riescano più a conciliarsi con le logiche del diritto.
Se può dirsi che il dibattito sulla legge elettorale è stato pressoché inesistente e in sede parlamentare tutte le richieste di cambiamento sono state frustrate, non altrettanto è avvenuto con riferimento al disegno di legge costituzionale presentato dal governo sulla trasformazione del Senato. Anzi, com’è noto, alla commissione affari costituzionali il progetto del governo era a un passo dal fallimento, non avendo trovato il consenso necessario proprio la richiesta concernente la non elettività diretta dei senatori. Ebbene, nel vuoto del diritto, è stato possibile assistere ad un colpo di teatro, che ha ottenuto un consenso politico pressoché unanime. Matteo Renzi, al quale nessuno può negare capacità spettacolari e velocità di movimento, ha sparigliato, proponendo egli stesso un sistema di elezione diverso. Ha sostenuto di voler lasciare che ogni Regione possa stabilire le modalità d’elezione dei propri senatori, aggiungendo che in fondo non c’era da impiccarsi sulla data di approvazione (ancorché – s’intende – nessuno potesse mettere in discussione la “velocità” come mito fondante l’immaginario del nuovo governo). Un coro di consensi ha accompagnato la brillante operazione politica, ed anche i commentatori più distanti hanno apprezzato l’apertura, mentre solo gli “irriducibili” hanno auspicato ulteriori aperture.
Non ho udito nessuno dire quel che a tutti è chiaro: il sistema suggerito non ha nessun senso giuridico e non potrà mai trovare una sua coerente applicazione. A prendere sul serio il compromesso politico enunciato – ma non chiarito – dal presidente del consiglio bisognerebbe ritenere che l’organo senatoriale potrebbe essere composto, del tutto irrazionalmente, a seguito delle differenti scelte di ogni ente territoriale, magari mettendo caoticamente assieme elettività diretta e indiretta, rappresentanza istituzionale e popolare. Ovviamente nessuno ritiene che questo possa essere l’esito. L’ipotesi che circola in queste ore di non modificare il testo base, ma di affiancargli l’approvazione di un ordine del giorno di segno opposto, oltre ad essere un’innovazione assai spregiudicata dei precedenti parlamentari, segnala l’indeterminatezza della proposta, ovvero la sua impraticabilità costituzionale. Malgrado ciò, si tende ad apprezzare la ragione politica che ha indotto a fare una proposta di apertura alle opposizioni. Poi si vedrà. Forse si riuscirà in seguito a dare un senso alla riforma costituzionale che, per ora, un senso non ne ha.
Sono in molti a sostenere che sia questo un atteggiamento pragmatico, politicamente opportuno in tempi difficili in cui non ci si vuole o può opporre al vento tempestoso e confuso del cambiamento. Non voglio esprimere giudizi di natura propriamente politica, ritengo tuttavia, semplicemente, che se il costo dovesse essere rappresentato dalla negazione della logica del diritto e della costituzione, non credo sia un prezzo che si possa pagare a nessuna ragione politica.
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