L’affarismo del partito-nazione
Corruzione Il presidente del consiglio chiede pene più severe, ma poco ha fatto contro il malaffare, preferendo accordarsi con un avversario già condannato dai tribunali della Repubblica
Corruzione Il presidente del consiglio chiede pene più severe, ma poco ha fatto contro il malaffare, preferendo accordarsi con un avversario già condannato dai tribunali della Repubblica
Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina la vita politica e amministrativa di Roma non dovrebbe stupirci. È sufficiente avere memoria delle cronache politico-affaristiche degli ultimi 20 anni per capire una verità elementare: la corruzione, in Italia, è la norma. Essa emerge ogni qualvolta la magistratura scoperchia la crosta della legalità formale e mostra il corso reale degli affari. È sufficiente affondare un po’ l’unghia e zampilla l’umore purulento.
Costituirebbe tuttavia un errore interpretare il problema ricorrendo a categorie morali di interpretazione.
Perché, come qualcuno ha già detto, la corruzione e la predazione sistematica del bene pubblico, sono un problema eminentemente politico. Possiamo chiederci perché tutti gli scandali esplosi negli ultimi anni vedono coinvolti uomini politici, rappresentanti di partiti, eletti nelle amministrazioni locali? Perché nell’affare fraudolento, direttamente o indirettamente, è protagonista o ha comunque un ruolo di rilievo la figura del partito politico? Dovremmo ricordarci che per oltre tre decenni, nella seconda metà del Novecento, in quasi tutte le democrazie occidentali, i partiti politici sono stati, come diceva Gramsci, gli «organizzatori della volontà collettiva». Essi fornivano coesione sociale, rappresentanza, voce alle masse dentro lo stato. Erano dei grandi collettori d’istanze sociali e per ciò stesso educatori di legalità, insegnavano il valore del conflitto sociale come strumento collettivo di espressione e di emancipazione. La lotta educa i singoli a pensarsi come corpo sociale e a trovare in essa, e non nelle scorciatoie personali, o nelle pratiche truffaldine, la via per far valere le proprie ragioni e i propri diritti. Com’è noto, da tempo, questa realtà ha fatto naufragio.
Affarismo autoreferenziale
I partiti di massa sono stati divorati al loro interno dai poteri economico-finanziari. In Italia – ha scritto Luigi Ferrajoli nel II vol. dei suoi Principia juris (Laterza),un testo ricchissimo di indicazioni riformatrici – la perdita della dimensione di massa, deriva anche «dalla crescente separazione dei partiti dalle loro basi sociali:per la loro progressiva integrazione nelle istituzioni pubbliche fino a confondersi con esse e a svuotarle e a spodestarle; per la loro trasformazione da associazioni diffuse sul territorio e radicate nella società in vaghi e generici partiti d’opinione, per la loro perdita di progettualità politica e di capacità di coinvolgimento ideale e di aggregazione sociale; per la loro sordità, il loro disinteresse e talora la loro ostilità ai movimenti sociali e alle sollecitazioni esterne». Si comprende, dunque, perché sono sempre di meno i cittadini che credono di poter far valere i propri diritti (lavoro, studio, casa, salute) attraverso le vie legali della pressione sulle proprie rappresentanze politiche: la diserzione crescente dall’esercizio del voto lo prova a sufficienza. Mentre aumenta il numero di chi cerca soluzioni informali e private ai propri crescenti problemi. Questa è da tempo la realtà di gran parte del Mezzogiorno, ma ormai costituisce l’humus su cui prospera e si estende, in tutta Italia, un affarismo di nuovo tipo, talora con propaggini criminali più o meno ampie.
Si potrebbe obiettare che nelle altre grandi democrazie al declino dei partiti di massa non ha corrisposto un pari tracollo delle strutture della legalità. L’obiezione, fondata, rinvia a specificità di lungo periodo della nostra storia nazionale, che qui non si possono neppure sfiorare. Ma si possono fornire spiegazioni sufficienti pur rimanendo nell’ambito della storia recente. Ebbene, come possiamo separare il quadro di devastazione civile e morale di Roma, offertoci dalla inchiesta giudiziaria in corso, da quanto è accaduto in Italia negli ultimi 20 anni? Come si possono separare i nomi di Carminati e Buzzi dalla cultura del sopruso e della illegalità profusa a piene mani per oltre vent’anni dal potere politico e di governo di Silvio Berlusconi? L’Italia, unico paese in Occidente, è stata lacerata da un conflitto di interessi senza precedenti e senza paragoni con altri stati civili del mondo. L’esecutivo della Repubblica è stato ripetutamente messo al servizio dei problemi giudiziari del presidente del Consiglio e degli interessi delle sue aziende; il parlamento è stato ripetutamente umiliato, gli interessi personali e quelli pubblici resi indistinguibili. E messaggi di impunità sono stati lanciati per anni agli imprenditori, con l’abolizione del reato di falso in bilancio, l’esortazione e la pratica dell’evasione fiscale, agli speculatori edilizi con i condoni e la libertà di saccheggiare il territorio, agli evasori fiscali con condoni benevoli per il rientro dei loro capitali. Quale altro incitamento alla frode dovevano ricevere gli italiani, addirittura dai vertici del potere politico, per perdere ogni fede – già scarsa per antica debolezza di disciplinamento civile – nelle regole comuni della nazione? Quale altro lasciapassare dovevano ricevere i gruppi affaristici e criminali per intraprendere le loro pratiche, in cooperazione con gli elementi più spregiudicati dei partiti?
Un moralismo dozzinale
Rammentare questo devastante passato consente di guardare con altri occhi alla reazione di Matteo Renzi di fronte ai fatti di Roma. Egli ha detto che è stanco di indignazione e che vuole i fatti. Siamo stanchi anche noi, ma innalzare le pene per chi corrompe e sequestrare i beni di chi delinque, non è sufficiente. È certo apprezzabile in sé, ma ancora una volta mostra l’abilità del presidente del Consiglio di trasformare qualunque problema in occasione di pubblicità elettorale. La trovata, che placa un po’ l’ira delle moltitudini e seda il moralismo dozzinale dei nostri media, nasconde una ben più grave realtà. Renzi, emerso alla ribalta come un innovatore, capace di riscattare la nazione dai suoi vecchi vizi è in realtà un continuatore. È anche lui un uomo della palude. La «rottamazione», ottima trovata propagandistica, gli è servita da strumento per regolare i conti nel suo partito e prenderne il comando. Non certo per innovare le vecchie regole della politica. Gli avversari utili, anche quelli con la fedina penale sporca, anche i corruttori della nazione, non andavano toccati. Forse che Renzi, diventato segretario del Pd, ha spinto il partito verso un maggior radicamento sociale? Ha portato un’etica nuova, una ventata di democrazia e trasparenza tra dirigenti, militanti, elettori? Una volta al governo ha forse messo mano alla situazione di illegalità in cui vive il paese da oltre 20 anni con il conflitto di interessi di Berlusconi? Ha ripristinato il reato di falso in bilancio? Al contrario, ha compiuto l’operazione più vecchia e consunta della storia politica italiana: accordarsi con l’avversario. Ha siglato un patto segreto con quel Berlusconi condannato in via definitiva nei tribunali della Repubblica. Ha continuato a tenere contatti con il plurinquisito Denis Verdini, ha messo mano alla struttura della costituzione, pur non essendo egli stato eletto, forzando un Parlamento che è espressione di una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte.
Nuovismo parolaio
E allora quale messaggio di legalità viene al Paese da tali scelte? Quale incitamento a continuare come prima arriva a tutti i faccendieri d’Italia? Non dovrebbe essere evidente che Renzi, proprio lui, il grande novatore, a dispetto del suo banale nuovismo parolaio, è l’anello di congiunzione che tiene in vita la «vecchia Italia», autorizza la conservazione del fondo limaccioso della vita nazionale? Non dovrebbe esser chiaro che la politica incarnata dal presidente del Consiglio si fonda su una immoralità costitutiva e irrimediabile, che guasta lo spirito pubblico? Egli infatti non solo rimette in mare aperto l’ iceberg dell’illegalità italiana, Berlusconi e i suoi, ma conduce una politica fondata sulla menzogna. Finge una politica popolare continuando di fatto la strategia ispirata dai poteri finanziari internazionali. Quella politica che ha generato la Grande Stagnazione, che continua a distruggere il nostro tessuto industriale, soffoca la vita delle amministrazioni comunali, fa dilagare disoccupazione e povertà in tante aree del paese, mette in un angolo Università e ricerca.
Renzi finge opposizione ai vertici di Bruxelles, ma lo fa con le parole, perché, da vecchio esponente del ceto politico, bada prima di ogni cosa alla conservazione del suo personale potere. Non va allo scontro con i forti, picchia chi ha a portata di mano, sindacati e lavoratori, accusandoli di essere vecchi, per renderli docili agli investimenti finanziari. E’allora, quale fiducia può rinascere nei cittadini, quale valore viene ridato a legalità e trasparenza in un paese in cui lo stato, prima ancora dei cittadini, parla il linguaggio della menzogna?
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