Le invasioni barbariche
«Lupi solitari», «Cellule dormienti», «jihad della porta accanto»: si sono affannati a spiegare il fenomeno che sembra esplodere all’attenzione dell’«innocente» mondo occidentale. L’urgenza di comprendere diventa ineludibile a fronte di […]
«Lupi solitari», «Cellule dormienti», «jihad della porta accanto»: si sono affannati a spiegare il fenomeno che sembra esplodere all’attenzione dell’«innocente» mondo occidentale. L’urgenza di comprendere diventa ineludibile a fronte di […]
«Lupi solitari», «Cellule dormienti», «jihad della porta accanto»: si sono affannati a spiegare il fenomeno che sembra esplodere all’attenzione dell’«innocente» mondo occidentale. L’urgenza di comprendere diventa ineludibile a fronte di quello che è accaduto in questi giorno in Canada, prima con l’uccisione di due soldati poi ad Ottawa, in pieno parlamento, con l’assalto armato – di un solo attentatore – con sparatorie, morti e feriti. È in frantumi l’immagine di un Paese apparentemente fuori dalla mischia delle guerre e della crisi mondiale.
Chi sono, dunque, e che cosa vogliono? Per rispondere bisogna necessariamente strappare il sipario di innocenza che avvolge le capitali dell’Occidente colto e raffinato. E ricordare che ognuno di questi paesi partecipa a schieramenti militari, guidati dagli Stati uniti, impegnati da anni, dall’89, senza successo, in conflitti in Medio Oriente inventati come quello sanguinoso in Iraq e poi a vendicare l’11 settembre, in Afghanistan, fino alla destabilizzazione, pienamente riuscita, in Libia e a quella invece fallita in Siria. Tralasciando la strategia dell’allargamento della Nato a est che, rieditando la necessità della Guerra fredda, sostiene ed accende la guerra alla frontiera con la Russia. A questo partecipa il pulito e irreprensibile nordamericano Canada. Membro della Nato e attivo da decenni nelle guerre coperte statunitensi e nelle pratiche armate atlantiche, a partire dall’Afghanistan insanguinato da tante vittime civili, dove ha schierato 40mila soldati dal 2001 al 2014, per passare al sostegno aperto alle guerre d’aggressione israeliana contro i palestinesi, con tanto di applauso a Netanyahu del premier canadese Harper per i raid su Gaza di questa estate; fino a partecipare alla coalizione anti-Stato islamico (Isis).
In tutti questi anni, prima e soprattutto dopo l’89, prima e soprattutto dopo l’11 settembre, l’Occidente, in questa globale operazione di ripristino della guerra e delle destabilizzazioni, ha cercato e trovato un alleato nell’integralismo islamico. Fin dalla facilitazione dell’ingresso di mujaheddin in Bosnia nel 1992-1993, già attivi in terra afghana; con i talebani poi per cacciare i mujaheddin arrivati al potere; con i jihadisti libici per abbattere Gheddafi. Infine, ed ecco il punto, sul modello libico (che doveva imitare il ’modello Kosovo’ d’intervento «umanitario») si è avviata la coalizione degli Amici della Siria, con l’Arabia saudita e il Qatar (che avevano collaborato a reprimere le primavere arabe in Bahrein), gli Usa, la Turchia, la Gran Bretagna e anche l’Italia.
Un fronte sunnita-occidentale all’origine della nuova coalizione anti-Isis, nata anche in funzione anti-Iran perché è filo-Assad, con l’Occidente che dalla confinante Turchia ha addestrato e finanziato l’opposizione democratica siriana (debole e marginale) e forti jihadisti di Al Nusra ora affiliata ad Al Qaeda. Mentre proprio l’11 settembre del 2012 i jihadisti libici già alleati degli Stati uniti, a Bengasi (dove ora si combatte ed è stato proclamato l’Emirato islamico) si rivoltavano contro l’America uccidendo, in un assalto al consolato della capitale della Cirenaica, l’ambasciatore statunitense Chris Stevens e quattro agenti della Cia, gli stessi uomini che li avevano coordinati nell’abbattimento del raìs. Mentre nel 2013 i militari egiziani, con un dimenticato quanto sanguinoso golpe («come in Cile nel ‘73» ha detto il grande scrittore turco Orhan Pamuk) abbattevano il governo dei Fratelli musulmani e il presidente Morsi, aprendo una deriva ancora più radicale nell’islamismo politico, già alle prese con il conflitto mai finito in Iraq, derivato dalle guerre americane di Bush e Clinton, tra sunniti e sciiti che dura sanguinosamente tuttora; e dando via libera all’offensiva d’Israele contro Gaza (e Hamas, già alleato di Morsi), per impedire l’unità Hamas-Fatah e minare alle fondamenta ogni possibilità che nasca lo Stato di Palestina.
Come si vede un caos da apprendisti stregoni, quelli che hanno vinto la Guerra fredda. Al punto che, dopo tanto dichiarare la fine dell’interventismo militare, Barack Obama ha pensato bene di ripristinarlo, bombardando in Iraq e Siria l’Isis – nuova articolazione generazionale più organizzata e «propositiva» della maestra Al Qaeda. Lanciando armi al coordinamento kurdo che combatte, mentre l’alleato atlantico Turchia sta a guardare il disastro che ha provocato. Aiutando sul campo sostanzialmente le milizie del Pkk, che però per l’Occidente è così terrorista che l’Italia di Massimo D’Alema ha consegnato Abdullah Ocalan, il suo capo, alle galere turche.
Per scoprire alla fine che tra gli armati del Califfato militano, ha rivelato lo stesso Obama, «da 12mila ai 15mila giovani venuti dai Paesi occidentali», tra cui più di 120 dal Canada. Ci si chiede: come è stato possibile, se non attraverso il silenzio-assenso, quando non proprio l’accordo con le «nostre» intelligence, l’arrivo in zona d’operazioni militari e passando molte frontiere, di questi jihadisti allevati ai nostri «Grandi fratelli» tv?
E che ora, a quanto pare tornano a casa dopo le esperienze «internazionaliste» (o le imitano), delle quali noi stessi siamo stati i tour operator? Allora, chi sono dunque questi nuovi barbari?
Nelle Invasioni barbariche lo straordinario film canadese di Denys Arcand, Oscar 2003, i nuovi barbari che vanno contro la vita passionale e di lotte per cambiare il mondo del protagonista (malato terminale che ha scelto l’eutanasia), altri non sono che i rappresentanti della nuova generazione che ha costruito la propria esistenza intorno a carriera, soldi, cinismo e potere.
Quel film resta illuminate anche adesso, su scale globale e dentro la crisi. Perché, se non esitiamo a definire come fascismo puro i tagliatori di testa che fanno vilipendio della vita dei vinti presi in ostaggio, come dovremmo definire chi li ha usati in decine di guerre coperte per destabilizzare il mondo a fini di potere e geostrategie?
Ignacio Ramonet ricordava recentemente il monito di Ibn Khaldun (1332-1406), inventore della sociologia e della filosofia della storia: «La storia è il racconto di imperi abbattuti dalla furia dei barbari…». Speriamo davvero che i barbari, che probabilmente siamo noi, non vincano.
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