Editoriale

Le ombre nere di Angela Merkel

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Germania Da quasi tre mesi ogni lunedì in piazza i «no global» anti-islam. E la destra può sdoganarsi. La cancelliera si precipita a stigmatizzare ma le parole d’ordine del movimento non sono distanti da quelle euro-tedesche. Solo la reazione antifascista impedisce il dilagare in altre città

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 7 gennaio 2015

La stampa europea ci ha messo del tempo a registrare la rilevanza del fenomeno. Eppure è da 11 settimane, ogni lunedì, che migliaia di persone manifestano a Dresda, richiamate da un movimento dal nome decisamente allarmante: «Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente», in sigla Pegida. Ancora lunedì scorso erano in 18.000 a sventolare bandiere tedesche e scandire slogan xenofobi nella capitale della Sassonia. Vero è anche, tuttavia, che il tentativo di allargare il movimento ad altre città tedesche, a cominciare da Berlino e Colonia è andato incontro a un plateale fallimento.

Poche centinaia di “patrioti” si sono trovati di fronte numerose contromanifestazioni partecipate da migliaia di persone. Ad Amburgo i manifestanti anti Pegida hanno perfino deciso di coniare una nuova, beffarda sigla: Tegica, che sta a significare «Europei tolleranti contro l’instupidimento dell’Occidente». A Berlino e Colonia è stata spenta l’illuminazione dei monumenti che avrebbero dovuto fare da sfondo alla concentrazione degli islamofobi, tenuti a bada da folte contromanifestazioni. Le chiese, la cancelliera e gli esponenti politici dei principali partiti hanno condannato il movimento e invitato i cittadini a non parteciparvi.

Ma la questione è tutt’altro che archiviata e circoscritta. Diversi dirigenti di «Alternative für Deutschland», la formazione antieuropea che ha ottenuto il 6,5% alle ultime elezioni per il Parlamento di Bruxelles, si sono pronunciati a favore delle ragioni del movimento o vi hanno addirittura partecipato, negando i tratti di estrema destra che visibilmente lo caratterizzano. E non sono mancate, tra le fila democristiane o liberali, voci che, pur mettendo in guardia dall’estremismo, chiedevano ascolto per le preoccupazioni che avevano condotto numerosi cittadini a rispondere alla chiamata di Pegida.

Da tempo la destra Cdu-Csu lamenta l’eccessivo centrismo di Angela Merkel.

Seppure polo di attrazione per tutto il radicalismo nero tedesco, che vi partecipa con entusiasmo, Pegida rappresenta quella classica confluenza di frustrazioni e risentimenti, fobie e malanimo, accentuati da una crisi che si fa sentire anche in Germania, soprattutto nelle regioni dell’est. La sintesi politica di questi stati d’animo si sedimenta nella parola d’ordine: «priorità all’interesse nazionale» che non solo coincide con la ragione sociale di «Alternative für Deutschland», ma è a suo modo consonante con l’arroganza della politica tedesca in Europa. Gli «islamici», in realtà c’entrano fino a un certo punto, e il razzismo esplicito anche.

Nel nazionalismo, assai meno circoscritto, sta la vera insidia. Quante volte il governo di Berlino, la corte di Karlsruhe e i falchi della Bundesbank hanno ribadito che l’interesse nazionale, le tasche dei contribuenti e la competitività delle imprese tedesche dovevano essere difesi da un eccesso di europeismo solidaristico e di condivisione della crisi con i partner più svantaggiati dell’Unione?

Ovviamente, la questione si fa imbarazzante quando il lessico del primato tedesco scivola nel linguaggio della più aperta xenofobia, nelle teorie del complotto «plutocratico» globale, cui i numerosi neonazisti presenti nelle file di Pegida non esitano ad affibbiare lo stigma «giudaico». La politica tedesca deve essere preservata da ogni sospetto di nazionalismo aggressivo, i suoi diktat devono apparire come pure espressioni razionali e oggettive della cosiddetta economia sociale di mercato. E’ per questa ragione che Angela Merkel si è affrettata a scendere in campo contro Pegida, soprattutto perché questo movimento comprometterebbe l’immagine della Germania nel mondo, salvo poi servirsi degli umori che vi circolano per rafforzare le ragioni, anche politiche, del rigore da imporre ai membri più deboli dell’Unione.

Accanto alle bandiere tedesche e agli striscioni antislamici, circola insistentemente tra i manifestanti di Dresda l’immagine di Vladimir Putin. Il presidente russo, dal Front national alla Lega «nazionalizzata» di Matteo Salvini, sembra essere diventato il simbolo di ogni nazionalismo «no global», di ogni sogno di «governo forte». Quello stesso volto circolava con altrettanta frequenza nelle manifestazioni che, dalla scorsa primavera, innescate dalla vicenda ucraina, avevano animato il movimento per la pace delle cosìddette Mahnwachen che, rifiutando di lasciarsi classificare nello schema destra-sinistra, aveva di fatto assunto una colorazione rosso-bruna. Il tema dell’antiamericanismo (combinato con l’ostilità verso Israele) è stato sempre un terreno comune tra il radicalismo di destra e le frange più dogmatiche e dottrinarie della sinistra extraparlamentare. Non è un caso che l’avvocato Horst Mahler, passato dalla Raf ai neonazisti, rivendicasse proprio questo terreno come la sua linea di coerenza. Certo, l’accentuazione antislamica e xenofoba di Pegida la distingue visibilmente dal movimento delle Mahnwachen, ma non si può escludere, come qualcuno ha voluto sottolineare, che un qualche travaso tra i due movimenti possa esserci stato. Magari sotto il segno del neozar Vladimir Putin.

La questione di Pegida è tutt’altro che marginale. Indica come la crisi europea e l’incapacità dell’Europa di raggiungere una reale autonomia geopolitica, apra la strada, da una parte a un nazionalismo sostenuto da pulsioni autoritarie, dall’altra all’uso formalmente democratico di quelle stesse pulsioni a favore della stabilità finanziaria e della rendita.

Il fatto che in così tante città tedesche migliaia di persone siano scese in piazza precludendo ai «patrioti» ogni libertà di movimento ci indica una nuova qualità, un nuovo contenuto e un nuovo compito dell’antifascismo, sottratto alla sua ritualità vuoi istituzionale, vuoi cruenta. Ma attento alle nuove forme postdemocratiche di governo delle società europee e alla crescita di movimenti nazionalisti e xenofobi nel vecchio continente.

A ben vedere la nostra Lega, rimpolpata dalla destra più o meno postfascista che vi vede giustamente la sua occasione, non è poi tanto diversa, quanto a composizione e a parole d’ordine, dai «patrioti» di Dresda. Sia pure rappresentata in parlamento (come del resto i neonazisti greci di Alba dorata) dovrebbe essere giudicata allo stesso modo e trattata di conseguenza.

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