Le sabbie mobili del campo largo
Quando parlano di una politica tra la gente, quando sottolineano la valenza del cambiamento che li impegna, si capisce che siamo di fronte a persone per bene, autonome dai padrinaggi, seriamente intenzionate a scardinare le pesanti logiche di potere delle rispettive città. I volti e le parole dei neosindaci di Catanzaro e Verona, Nicola Fiorita e Damiano Tommasi, spiegano bene le ragioni del loro consenso.
Ci credono. Ci provano. Rappresentano la versione migliore, perché connotata socialmente, di quel campo largo che ora tutti i frontman di piccole formazioni stiracchiano e rivendicano allo scopo di sedersi al tavolo del gioco nazionale, possibilmente cancellando l’alleanza tra un rassicurato Pd e uno spaesato M5Stelle.
L’affermazione (diciamo la verità: inaspettata) di questi cittadini, credibili e rappresentativi, giustamente raccoglie la soddisfazione del segretario del Pd che si gode il risultato delle urne avendo partecipato ai ballottaggi come azionista di maggioranza, e molto contribuito alla vittoria di 7 capoluoghi di provincia su 13.
Con ragione Letta afferma che gli elettori vogliono l’unità delle forze. Ne siamo convinti, lo abbiamo sempre sostenuto perché è così: l’unione fa la forza. Come del resto sanno molto bene anche Meloni, Salvini e Berlusconi dopo la sonora batosta delle urne, determinata proprio dal marasma che attraversa i rispettivi partiti (emblematico il caso di Verona).
E i leader del centrodestra faranno carte false, possiamo scommetterci, per ricompattarsi in vista delle elezioni politiche del 2023.
Nella diversa natura dello scenario nazionale, l’unione del centrosinistra farà la forza se non diventerà la riedizione, sotto mutate spoglie, dell’Unione di prodiana memoria Quella sommatoria di partiti e cespugli, da Mastella a Cossutta, quando, sotto le generiche bandiere del progressismo, del riformismo, dell’europeismo (tre parole magiche che l’onda dei ballottaggi ha riportato a galla), tutto iniziò e finì nel giro di due anni (2006-2008).
La verità è che il centrosinistra ha davanti una strada in salita. Perché il modello civico locale che ha prevalso in queste elezioni amministrative, espressione di una cittadinanza costruita fuori dalle burocrazie partitiche, difficilmente sarà replicabile a livello nazionale, e di sicuro non con unioni elettorali posticce. Dove quel che più fa difetto è proprio un forte radicamento sociale che, viceversa, questa volta ha premiato i nuovi sindaci (Tommasi ha avuto una larga affermazione nelle periferie cittadine).
Oltretutto il dilagante astensionismo, pur penalizzando tutti gli schieramenti, sembra aver colpito soprattutto un centrodestra allo sbando più che i candidati del centrosinistra. Che cosa, allora, sul piano nazionale, può far immaginare una coalizione sociale capace di far fronte a una situazione economica gravida di minacciose incognite? Forse i cespugli liberal-liberisti che strillano contro il salario minimo, contro il reddito di cittadinanza allargheranno gli orizzonti traghettando il Pd fuori dai centri storici? Avremo l’ennesima replica del renziano “sindaco d’Italia” (variante dell’uomo solo al comando)? Davvero difficile credere che siano questi i connotati di un campo largo.
Tra la crisi economica galoppante, la guerra d’invasione in Ucraina, la radicalizzazione dello scontro da questa parte del mondo (dagli Usa sull’orlo di una guerra civile, al terremoto del sistema politico in Francia, alla crisi alimentare che attraversa il Mediterraneo), alla fine potrebbero essere le destre, maestre del populismo, a riprendere lo scettro del governo della paura.
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