Dal conflitto sulla sovranità degli stati al conflitto sul diritto dei popoli
Lettere Care amiche ed amici, Con l’azzardo di Putin di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Luhansk (Donbass) la crisi ucraina cambia natura e da conflitto sulla sovranità degli Stati diventa […]
Care amiche ed amici,
Con l’azzardo di Putin di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Luhansk (Donbass) la crisi ucraina cambia natura e da conflitto sulla sovranità degli Stati diventa un conflitto sul diritto e la liberazione dei popoli. Se finora la disputa era sul diritto sovrano dell’Ucraina a entrare nella NATO senza doverne rispondere ad alcuna istanza superiore ad essa e sul diritto della Russia a muovere le sue truppe dentro i suoi confini per essere pronta a difendersi, la mossa di Putin introduce un elemento nuovo che mette al centro della crisi non più solo gli Stati ma i popoli; da un lato infatti è in gioco il diritto del popolo russo a non avere sulla porta di casa missili nemici capaci di raggiungere Mosca in trenta secondi, dall’altro il diritto dei popoli del Donbass a rimettere in discussione il proprio status nel contesto degli altri popoli e di un potere centrale percepito come oppressivo e intenzionato ad espropriarli della loro identità e della loro cultura, dalla lingua alle tradizioni e alla stessa Chiesa ortodossa che si vorrebbe autonoma dal patriarcato di Mosca.
Ed è sui popoli che ricadono le conseguenze dell’aggravarsi della crisi non solo per le minacce di guerra ma già per le “sanzioni” annunciate da Biden con l’esplicita intenzione di provocare “dolore” nelle popolazioni che ne saranno colpite (ma non nella sua), sanzioni che saranno, come ha detto il presidente americano, quali la Russia non ha mai subito prima; esse peraltro colpiranno anche l’Europa e noi. Per questo le reazioni sono altrettanto devastanti delle azioni, e si innestano in una spirale perversa che ha preso avvio dall’internazionalizzazione del conflitto interno dell’Ucraina fino al coinvolgimento della NATO e quindi alla trasformazione del conflitto politico in conflitto militare potenzialmente mondiale.
Il mondo assiste attonito al precipitare degli eventi mentre sul territorio il doloroso esodo degli abitanti in fuga incrocia il movimento temerario delle armate. Questo cambiamento della natura del conflitto avrebbe dovuto comportare una diversa reazione degli Stati ad esso estranei e della stessa comunità mondiale; la reazione ragionevole sarebbe quella primaria di escludere la guerra, promuovere un vero negoziato ed esigere che la volontà dei popoli coinvolti sia urgentemente e debitamente accertata con un controllo internazionale adeguato. Purtroppo le reazioni dell’Occidente sono state finora quelle tradizionali degli Stati che non fanno altro che identificare il nemico e contemplare come esito finale la guerra.
Nel prendere atto della mutata natura del conflitto bisognerebbe invece tener conto di due cose. Anzitutto non ignorare le gravissime accuse mosse dal presidente russo al potere statale dell’Ucraina responsabile di una gestione della cosa pubblica riassumibile nella denuncia agostiniana dei regni della terra quando, senza giustizia, sono solo dei grandi ladrocini. In secondo luogo bisogna uscire dalla falsa alternativa tra una resa dell’Occidente o una sua inflessibile reazione fino alla guerra.
Finora la risposta, coerente alla cultura di Biden, ha solo a che fare coi soldi ed è rivolta allo strangolamento dell’economia e al blocco delle forniture di gas; ma la difesa militare “di ogni centimetro dell’Ucraina”, come è stato promesso, sarebbe, per dirla con papa Giovanni, “fuori della ragione”. Tutte le guerre intraprese dall’Occidente dopo la seconda guerra mondiale sono state del resto perdenti e sbagliate, dal Vietnam alle guerre del Golfo (infatti ce ne sono volute due), dalla guerra contro la Iugoslavia, addirittura appaltata alla NATO, all’Afghanistan; per non parlare della guerra contro i migranti combattuta alzando muri e reticolati ai confini, negando l’approdo nei porti o perfino finanziando i lager libici; ma quest’ultima guerra, a partire dal cuore dell’Europa, potrebbe essere veramente quella “finale”. Al contrario non sarebbe “una resa” quella che si facesse carico della salvezza dei popoli e costruisse un’alternativa che ne riconoscesse i diritti fondamentali.
L’affermazione del diritto all’autodeterminazione e alla liberazione dei popoli vanta in Italia una ricca tradizione, dalle iniziative di Lelio Basso al Tribunale permanente dei popoli a “Costituente Terra”. Certamente tale diritto deve essere contemperato col valore della stabilità dei confini ed essere esercitato con metodi negoziali e non violenti, e con le necessarie cautele e garanzie per evitare derive populiste e antistatali. Ma senza dubbio uscire in avanti dalla terribile crisi in atto, in alternativa agli automatismi della contrapposizione e della vendetta, sarebbe un passo importantissimo verso un mondo più equo, come quello che era stato sognato alla fine della guerra fredda, quando si era parlato di “un dividendo della pace” e di un mondo “libero dalle armi nucleari e nonviolento”. Quelle speranze sono state stracciate, benché nel frattempo il mondo sia entrato in un’epoca nuova, e non solo per il clima; ma purtroppo non se ne sono accorti i responsabili delle nazioni. È questo il tempo di riprenderle e realizzarle.