Goro vista dalla Jugoslavia
Lettere Colpisce il modo in cui una piccola città di 3.828 abitanti della provincia di Ferrara in Emilia Romagna, Goro, abbia respinto donne e bambini profughi suscitando l’indignazione dell’intero Paese. Ho […]
Colpisce il modo in cui una piccola città di 3.828 abitanti della provincia di Ferrara in Emilia Romagna, Goro, abbia respinto donne e bambini profughi suscitando l’indignazione dell’intero Paese. Ho provato a darmi delle spiegazioni.
Sono in Italia da cinquant’anni ma vengo da un Paese che non esiste più, la Jugoslavia. Sono stata sempre bene accolta, ho rifatto qui i miei studi universitari, ho lavorato per molti anni come redattrice in un’importante casa editrice. Ho tradotto molti scrittori del mio Paese natio, ho scritto un libro che ha avuto un discreto successo. Ho seguito al ministero degli Interni come interprete diverse storie della «mia» gente che fuggiva davanti alla «mia» guerra.
Una guerra che ancora non riesco a spiegarmi. Anche se sarebbe facile.
Il racconto di chi fugge davanti alle armi è semplice e quasi identico per tutti. Le case perdute, i lager, le morti, le violenze, soprattutto sulle donne, la vita che cambia di colpo. Il più forte che vince sul più debole. Ma chi è più forte non è mai solo.
Dopo la morte di Tito, la crisi economica nel mio Paese ha fatto passi da gigante. Gli stipendi e i salari diminuiti, la produzione che stentava, i negozi che si svuotavano.
Un premier, Ante Markovic, chiede aiuto all’Europa, un millesimo di quel che poi sarebbe costata la guerra e la ricostruzione, ma non riceve risposta. Negli archivi dei grandi il mio Paese doveva smettere di esistere. Era troppo diverso, troppo fuori dai blocchi consolidati. Una volta morti i grandi fondatori del non allineamento (insieme a Tito, Nehru, Nasser, N’Krumah, Indira Gandi) doveva morire anche il primo paese che lo rappresentava.
La crisi economica genera i nazionalismi o i razzismi. Esiste sempre un colpevole fuori da noi che ci impedisce di vivere meglio. In gran parte dei casi è il nostro vicino. Scriveva un grande scrittore serbo, Danilo Kis:…«Il nazionalismo è, prima di tutto, una paranoia. Una paranoia collettiva e individuale. Come paranoia collettiva è una conseguenza dell’invidia e della paura, e soprattutto della perdita della coscienza individuale».
Su questo fertile terreno prosperano i piccoli capetti che sanno spiegare bene come il nostro malessere dipende soprattutto dal possibile benessere dell’«altro» e cominciano a martellare con tutti i mezzi possibili chiamando alla ribellione. La gente, già sfinita dalla crisi ci casca facilmente. Nascono i nuovi «eroi», i nuovi «patrioti» e la guerra inizia.
Ovviamente, i direttori d’orchestra stanno fuori. I Signori della guerra muovono i loro fili e le marionette fanno il loro gioco. Un’intera nazione viene spazzata via e vengono creati i nuovi Stati – monolocali in cui il «volgo» diventa sempre più povero e i ricchi sempre più ricchi. Dove non si produce quasi niente e interi territori e beni vengono venduti al capitale straniero.
Tutto questo cosa c’entra con Goro? C’entra in quanto voglio riconfermare che non credo nella cattiva fede dei suoi abitanti. Credo che anche loro, spossati dalla crisi economica, in questo caso italiana ed europea, nello straniero, nel «diverso» vedono spesso il nemico, colui che li farà vivere ancora peggio, che potrà godere delle facilitazioni che loro non hanno o portare il trambusto e il malaffare nelle loro strade.
Una paura, o «paranoia» che viene collaudata anche dai partiti xenofobi e che spero non sarà utilizzata anche ai fini elettorali.