Green Gentrification!
Lettere E la città che non si vende
E la città che non si vende
A Milano come a Roma i grandi protagonisti del Real Estate internazionale stanno ottenendo importanti porzioni di spazio urbano partecipando al programma a vocazione ambientalista C40 Reinventing Cities. Ma gli/le attivist* di MACAO a Milano denunciano i rischi e i limiti dei processi di privatizzazione e le nuove strategie neoliberali del greenwashing.
Alla vigilia di appuntamenti amministrativi importanti, per non lasciare alle destre la questione sociale, alcune proposte per una politica urbana di sinistra, ecologica, decoloniale e sostenibile, situata nelle periferie e nel paese reale.
Le politiche green post-pandemiche sono il laboratorio in cui si stanno configurando le tattiche politiche del prossimo decennio. Per questo il caso del programma C40 Reinventing Cities di rigenerazione urbana ad impatto ambientale è un ottimo banco di prova per capire come vecchi interessi si configurano in sfide innovative volte al futuro.
C’è stato un gran dibattito su C40 che mi sembra si risolva in una sola osservazione.
Il vero nodo è il ruolo degli interessi del privato sul pubblico e come il movimento dei Commons rappresenti ancora l’alternativa più avanzata. Tutto qui.
Quando è nato MACAO nel 2012 a Milano abbiamo occupato Torre Galfa del cattivo Ligresti che con la mafia, la P2, la finanza e Berlusconi aveva messo le mani sulla città di Milano per mezzo secolo. Tutti ad applaudire perché stavamo attualizzando a Milano il tema del diritto alla città, dimostrando che era possibile e utile lottare contro la Gentrification. Di movimenti contro gli sfratti per le occupazioni ce ne sono per fortuna sempre stati, ma la gentrificazione era qualcosa di nuovo.
La tattica era cambiata. Non era più questione solo di mandare via i poveri perché arrivano i ricchi, ma di usare tutta la vitalità e la convivialità che i poveri sanno generare per attirare i ricchi. Per poi, solo successivamente, scacciarli, naturalmente.
Quelli erano gli anni della riqualificazione di Garibaldi-Repubblica, della trasformazione del quartiere Isola e dell’umiliazione subita da tutti i comitati, artisti e centri sociali del quartiere a opera di Manfredi Catella in combutta con il Comune di Milano dell’allora sindaca Letizia Moratti.
Fu allora che dicemmo con forza attraverso la genesi di MACAO che tutti coloro che si opponevano ad amministratori pubblici piegati agli interessi dei privati, potevano auto organizzarsi, entrare negli spazi della città ed occuparsi direttamente dei beni comuni. Allo stesso tempo dicemmo che generare dei Commons era questione intersezionale e interdisciplinare, artist* student* contadin* ricercator* musicist* camerier* facchin* architett* filosof* e nullafacenti potevano fare fronte comune per inventare nuove forme di organizzazione per una città più sostenibile.
Sì, lo so… belle parole, ma ciò che è successo dopo ha reso tutto più complicato e difficile.
La nuova amministrazione di centro sinistra della città si trovò di fronte queste mobilitazioni pubbliche e un nuovo soggetto politico con cui avere a che fare, e questo succedeva in tante altre città d’Italia. Le piazze di tutto il mondo chiedevano democrazia diretta e nuove istituzioni dal basso. La risposta istituzionale europea è stata in primis quella di cogliere la palla al balzo traducendo in un lessico un po’ social e manageriale concetti simili: innovazione culturale, innovazione sociale, rigenerazione urbana, social impact, partecipazione e audience development, urbanistica tattica, uso temporaneo….
È con questo armamentario concettuale che iniziarono a pullulare bandi pubblici e grant di fondazioni bancarie volte alla riqualificazione della città attraverso progetti culturali interdisciplinari di rigenerazione e arte partecipata. Ma le istituzioni attraverso questo dispositivo di progettazione erano sopratutto in cerca di investimenti privati. Infatti, l’idea di fondo che sottende questa strategia è di attirare investimenti privati a cui alienare patrimonio pubblico in cambio di una promessa di riqualificazione urbana a impatto socio-culturale. Naturalmente se ciò di cui si sta parlando sono piccole metrature in periferia le si può cedere ad una piccola associazione gratuitamente, mentre se si tratta di grossi master plan o edifici di pregio, chi può aggiudicarsi i progetti di rigenerazione sono solo grossi fondi di investimento.
Sta qui tutto l’inganno e la contraddizione retorica. La verità è che non c’è alcun fondo d’investimento che riqualifica degli spazi pubblici senza avere un tornaconto economico speculativo. Quali sono le forme del profitto degli investitori privati? Di solito è un misto fra rendita immobiliare (affitti alti), bancabilità (poter usare il valore della proprietà immobiliare per aumentare le proprie esposizioni finanziarie), perequazione (aumentare il proprio portafoglio di indici di edificabilità trasferibili altrove), accreditamento a fondi pubblici per l’erogazione di servizi in partenariato e brandizzazione del proprio marchio. Se un grosso fondo di investimento supporta un’acquisizione rispondendo a un bando per la riqualificazione a impatto socio-culturale, vuole/deve fare, prima o poi, profitto. E molto spesso sul medio lungo termine il profitto non è conciliabile con l’impatto socio-culturale.
Per chi non è del settore è come andare a fare un mutuo da uno strozzino, nei primi anni si riesce a investire in arte e cultura, ma dopo poco tempo si sente il peso di quel 6/7% di interessi, che bisogna restituire ogni anno; nel giro di un decennio si comincia a sudare freddo e se si è bravi ci si ritrova a fare solo ristorazione, affitti a conventions e sfilate di moda; dopo di che ci si stufa (nel caso rimangano degli ideali) e si fallisce comunque scegliendo di cambiare vita.
Quale è la colpa degli amministratori? La prima è quella di sottomettersi acriticamente al quadro normativo dettato dal patto di stabilità. Tradotto: per far fronte al debito pubblico gli amministratori sono costretti a vendere patrimonio pubblico al privato per fare cassa. È lo stesso quadro normativo a spingere il patrimonio pubblico in bocca ai privati per poter ripianare i conti. Per non tagliare i servizi sociali, culturali, educativi e sanitari (e in Lombardia lo sappiamo bene) i servizi sono concessi a soggetti privati e lì inizia il ricatto: o li rifinanzi con soldi pubblici spendendo più di prima e aumentando il debito, o li lasci a erogare i servizi in modo selettivo, a prezzi commerciali ed esclusivi.
La seconda colpa è quella di peccare di arroganza. Molti amministratori pensano che attraverso la privatizzazione dei servizi riescono a mantenere una regia pubblica, ma nella realtà dopo poco ne perdono le redini e la guida.
La terza colpa è della cultura neoliberale. Si pensa che attirare investimenti significhi aumentare la distribuzione media di ricchezza. Quando in realtà tutti gli indicatori ci dicono che non si fa che aumentare le disuguaglianze e che il turn over dell’esercito di riserva di lavoratori precari e studenti, attratto dal mito della città ricca, viene continuamente depauperato, espulso e sostituito ciclicamente.
La quarta colpa, in alcuni casi, è ancor più grave: senza essere corrotti (anche se a Milano negli ultimi anni abbiamo assistito anche a diversi arresti) gli amministratori sono conniventi, corteggiati e legittimati dagli interessi delle lobby del privato.
“Reinventing Cities” e l’incapacità di progettare una città come bene comune.
E poi arriva C40 Reinventing Cities, un programma di rigenerazione urbana in cui il Comune di Milano aliena i diritti di superficie di parti considerevoli di città al privato in cambio di progetti socio-culturali ad alto impatto ambientale. Benissimo. Guarda caso il programma mette a bando tutto l’orto mercato abbandonato di Milano e le Palazzine Liberty in cui si trova Macao. La notizia di poche settimane fa è che le cordate di investitori che stavano gareggiando sulle Palazzine Liberty si sono tutte ritirate lasciando il bando deserto. Che cosa è successo?
Durante quest’anno di gara, l’assemblea di Macao ha affermato ostinatamente e provocatoriamente che l’assegnazione a un privato di quegli spazi, che per dieci anni abbiamo dichiarato bene comune, non dovesse significare la loro messa a profitto. Spendendo molto tempo in negoziazione, protesta e pubblicizzazione, abbiamo tenuto il punto piantandolo nel cuore del problema. Nello spirito propositivo che ci contraddistingue, abbiamo sfidato ogni progetto in gara a costruire un business plan che fosse davvero a impatto socio-culturale. Quale è stato il risultato? Non senza difficoltà e tensioni, mano a mano gli stessi progettisti hanno cominciato a lamentare la contraddizione in essere: come possiamo investire così tanti soldi senza fare progetti business oriented? Perché l’amministrazione comunale da una parte chiede progetti a impatto sociale e ambientale e sostiene l’importanza di Macao e, dall’altra, imposta una gara a investimenti così alti? Risultato: si sono ritirati.
Stare nel problema significa sapere che la discussione sul destino di quelle palazzine non finisce di certo qui. Questo è solo un momento propizio per fare tesoro delle contraddizioni emerse e spingere l’acceleratore nella direzione giusta.
Ma se abbiamo capito l’ovvio (che a quanto pare tanto ovvio non è), ovvero che i grossi fondi di investimento speculativi sono incapaci di operare per la pubblica utilità e sostituirsi davvero alla funzione pubblica, qual è l’altro grande scenario da analizzare? Credo che l’altra opzione sia il partenariato pubblico-privato che arriva dal sistema cooperativo. Il partenariato pubblico-privato è quel sistema per cui il pubblico investe con il privato per creare una funzione mista fra servizio pubblico e funzione commerciale. In questo schema cadono spesso il terzo settore, le fondazioni bancarie, il sistema cooperativo e l’housing sociale.
Molta Milano è ormai innervata da questa dinamica e occorre mettere attenzione su quali processi genera. Sarò molto diretto: il rischio è di attivare processi di inclusione parziali e razzializzanti in nome di una vocazione cooperativa e sussidiaria. Prendiamo l’esempio dell’Housing Sociale: un grosso piano nazionale governativo che, attraverso Cassa Depositi e Prestiti e il Ministero dell’Economia, stanzia un co-finanziamento pubblico considerevole a soggetti privati che investono in housing sociale per assolvere alla crescita di domanda di edilizia pubblica popolare. Questo ha generato un po’ di azioni (soprattutto a Milano) in cui si costruiscono quartieri con una qualità medio-alta (fra servizi integrati e composizione architettonica) in cui l’investitore è obbligato ad allocare in percentuali minime alloggi a categorie fragili. Il dato di fatto è che si percepisce uno iato fra i soldi pubblici ricevuti e la comunicazione dell’operazione (“alloggi per i meno abbienti”): molti alloggi sono allocati a prezzo di mercato o leggermente calmierati e solo una minimissima parte viene simbolicamente concessa a categorie davvero bisognose. Insomma, in una parola, finiscono per disegnare quartieri di bianchi benestanti aperti alla vita comunitaria e collaborativa, tipica composizione del terzo settore, della classe media socialmente impegnata. Mentre le case popolari continuano a versare in condizioni spregevoli, le comunità migranti occupano quello che trovano di abbandonato e la comunità dei senza tetto è in continua crescita.
Non è solo un problema di degrado il fatto che migliaia di adulti, minori e famiglie per lo più migranti – le stesse che puliscono le case dei bianchi e portano a loro il cibo come fattorini – stiano occupando alloggi abbandonati, in situazione di violenza quotidiana e di indigenza sanitaria, a volte senza un allaccio all’acqua e riscaldamento. Lo scandalo è sostenere che si possano aiutare queste persone attraverso l’Housing Sociale, tanto quanto è uno scandalo che buona parte dell’amministrazione di sinistra riduca la questione del diritto alla casa a questione di decoro urbano e, da dentro questa miopia politica, alla sola necessità di sgomberare.
Proposte per una politica urbana ecologica, decoloniale e sostenibile.
Che fare quindi? Cose da fare ce ne sarebbero tante, peccato che sono proprio quelle che ci si guarda bene dal percorrere.
1) Riconoscere gli spazi che davvero stanno facendo attivismo politico come bene comune. La regia pubblica dovrebbe attuare immediatamente un piano di collaborazione effettiva finanziando in ristrutturazioni e manutenzione tutti quegli spazi che sono gestiti dal basso per una riconosciuta utilità collettiva. Macao, Remake, la Casa delle Donne, tutte le sedi delle Brigate Volontarie Per l’Emergenza, solo per citarne alcuni a me più vicini fra le centinaia di realtà che a Milano stanno assolvendo, attraverso l’autogestione, funzioni essenziali per la cooperazione sociale. In questa direzione, negli scorsi dieci anni abbiamo proposto l’attuazione di una delibera quadro sui beni comuni che portasse a Milano la giurisprudenza in sperimentazione sugli usi civici. In alternativa, abbiamo proposto azionariati popolari svincolati da fondi di investimenti che possano costruire forme innovative di co-proprietà diffusa, volte ad alienare i beni dal mercato immobiliare, a un costo sostenibile per le comunità di riferimento. In ogni caso, abbiamo affermato il principio che qualora si optasse per il più tradizionale contratto di affitto, questo debba essere al 90% al ribasso del costo di mercato per garantire a uno spazio che produce valore di pubblica utilità di non snaturare le proprie attività, piegandole ai dettami dei rientri economici.
2) Le istituzioni pubbliche dovrebbero intraprendere con più coraggio, tanto più all’interno dell’attuale PNRR, politiche di contrasto al processo di privatizzazione del piano urbanistico e dei servizi essenziali (educazione, cultura, casa e salute). In primo luogo dovrebbero investire direttamente in edilizia pubblica abitativa e scolastica. Una città come Barcellona, per esempio, ha preso misure di contrasto alla politica dei prezzi determinata dall’economia di piattaforma, Berlino ha già attuato un programma di controllo sugli affitti e ha obbligato il privato a vendere al Comune proprietà immobiliari con politiche di anti-trust laddove il privato in alcuni quartieri superi la soglia di monopolio. In questi giorni, grazie a un progetto che ci vede coinvolti nella città di Amburgo, ci ritroviamo in numerosi confronti pubblici attraverso cui due occupazioni artistiche molto simili a Macao hanno ottenuto un finanziamento pubblico per decine di milioni di euro; l’una per operare all’interno di un intero isolato del centro, l’altra per trasformare in co-proprietà e bene comune l’ex centrale elettrica della città.
3) il Terzo Settore si deve mettere in discussione, deve evitare di appiattirsi sulla funzione di impresa capitalista dal volto umano. Rifiutarsi di assolvere la funzione di compensazione degli interventi più speculativi e, di fatto, apripista dei processi di privatizzazione e precarizzazione del lavoro. Dobbiamo smettere di pensare che i servizi sociali, la qualità abitativa e ambientale sia solo possibile a margine e a condizione di interventi speculativi e di crescita economica. Se il terzo settore ambisce ad avere una vocazione non sussidiaria al capitalismo, recuperando con forza la sua natura contro-egemonica, allora deve ricominciare a mettersi al servizio dei movimenti sociali. Ha senso dare forma di impresa al sociale solo se ci si mobilita politicamente nel solco dei movimenti per i commons. Non ho nulla contro l’associazionismo e il cooperativismo, che è ovvio essere quasi sempre utile, il mio è solo un appello a ritrovare il fuoco e il cuore che gli rende giustizia e senso, allo scopo di rifuggire una china che non fa che produrre confusione e rendere il terzo settore inefficace e irrilevante. Non c’è impresa sociale se non in lotta.
4) Di fronte alla crisi climatica e sociale che stiamo vivendo, dobbiamo evitare in modo estremamente concreto e frontale i tranelli del greenwashing. Evitare di usare i temi dell’ambiente e della giustizia sociale solo a parole, mentre nei fatti non si mettono minimamente in discussione i processi produttivi e riproduttivi. Il rischio è quello di ritrovarsi fra qualche anno nelle nostre città europee con pannelli fotovoltaici, case ben coibentate, auto elettriche, piste ciclabili e etichette bio ovunque, grazie a tante rigenerazioni urbane in stile C40 disegnate per pochi e per lo più bianchi. Mentre aumentano eserciti di lavoratori precarizzati e razzializzati senza alloggi e accesso ai servizi, che si prendono cura di ciò che i bianchi non vogliono fare. Le stesse persone che, con buona probabilità, scappano dai territori dove delocalizziamo emissioni e rifiuti che, via via, ci sembreranno sempre più “ridotti”.