Il passato dell’università italiana ha molto da insegnarci
Lettere Condivido quanto scritto da Piero Bevilacqua nell’articolo ”Il silenzio dell’università e le responsabilità del ceto politico”, apparso su il manifesto del 2 ottobre. Mi riservo però dei dubbi circa alcuni […]
Condivido quanto scritto da Piero Bevilacqua nell’articolo ”Il silenzio dell’università e le responsabilità del ceto politico”, apparso su il manifesto del 2 ottobre. Mi riservo però dei dubbi circa alcuni passaggi della parte finale dell’articolo stesso, in particolare laddove si afferma “Da questo mondo regredito, schiacciato sotto il peso di una ideologia produttivistica che soffoca ogni visione generale, incatenato alla precarietà, non può più venire alcun moto di ribellione, né tanto meno un conato di revisione dello status quo.”.
Per il vero, nemmeno in passato l’università italiana abbondava di cuor di leone: l’esempio più significativo al riguardo rimane, senza dubbio, l’assenso plebiscitario al regio decreto n. 1227 del 1931 che chiedeva ai docenti universitari di “giurare devozione alla Patria e al Regime Fascista” (art. 18). Solo 12 docenti su 1225, quindi meno dell’1% (!), si rifiutarono di fare questo giuramento, scelta che costò ad essi la perdita del posto.
Direi che il senso etico e il coraggio civile scarseggiavano già allora nell’Università italiana, dominavano piuttosto il conformismo e l’asservimento al potere. Molti docenti, tra cui Luigi Einaudi e Piero Calamandrei, seppure dichiaratamente antifascisti, giurarono giustificando la propria scelta con la presunta necessità di non lasciare la cultura accademica in mano ai fascisti, cosa che, peraltro, fu proprio ciò che avvenne. Infatti il dramma si concretizzò nel 1938 con l’emanazione delle “leggi razziali” e l’espulsione dall’Università dei docenti di origine ebraica: si resero così vacanti numerose cattedre che vennero assegnate ad altrettanti rappresentanti di “pura razza italica”. A questo punto il copione si ripete: solo uno (Massimo Bontempelli) degli 896 professori neoincaricati non accettò la cattedra, rifiutandosi di sostituire uno dei docenti espulsi.
A guerra conclusa, chi aveva approfittato della situazione creatasi per effetto delle leggi razziali, in genere si guardò bene dal vergognarsene e difese anzi con accanimento il posto così indecorosamente conquistato; un epilogo degno della migliore tradizione italica. E a poco servono le scuse che, solo dopo 80 anni (!), nel 2018, i rettori delle università italiane hanno chiesto per l’ingiustizia subita all’epoca dai docenti e dagli studenti di origine ebraica.
Se quanto sostiene Bevilacqua, ovvero che il quadro complessivo dell’università italiana si è modificato in peggio negli ultimi decenni, è vero (e io di questo non dubito), oggi plausibilmente assisteremmo al ripetersi di quella vicenda. Dubito però che il ceto politico di governo (come l’autore indica quale possibile, parziale rimedio alla mutazione antropologica del mondo accademico) abbia la volontà e la capacità di intervenire per rivitalizzare un contesto che, oggi, si configura come autoreferenziale quanto mai lo è stato in precedenza. Del resto, la mutazione antropologica non è un’esclusiva dell’università, purtroppo riguarda la società intera.