Le risorse in campo
Lettere Carissimi, “Ancora vent’anni, e la Terra sarà distrutta”: è questo il senso della notizia che ha fatto irruzione in questi giorni; basterà un aumento di un grado e mezzo della […]
Carissimi,
“Ancora vent’anni, e la Terra sarà distrutta”: è questo il senso della notizia che ha fatto irruzione in questi giorni; basterà un aumento di un grado e mezzo della temperatura media, hanno proclamato gli scienziati incaricati dall’ONU di controllare il cambiamento climatico, e si andrà di catastrofe in catastrofe, attraverso eventi mai accaduti finora in centinaia di migliaia di anni. Quello del 6 agosto scorso è stato un annuncio simile a quello rivolto a Ninive dal profeta Giona: “Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta”. Solo che questa volta a dirlo erano 145 governi di tutto il mondo, che non hanno alcuna intenzione di convertirsi, come invece fecero i capi di Ninive, mentre in gioco non c’è una città o un impero, ma la vita stessa sulla Terra.
Se fosse vero che la ragione è il principale movente dei comportamenti umani, da domani comincerebbe la rivoluzione verde e si procederebbe a mutamenti inauditi nella vita economica e nei modi di vita; essi non porrebbero rimedio ai danni già irreversibili arrecati all’ambiente, ma impedirebbero il protrarsi delle devastazioni in corso e l’avvicinarsi della fine.
Se fossero già in esercizio una Costituzione e un popolo della Terra capaci di prenderne in mano i destini, secondo il progetto che ne è stato avanzato, avremmo delle politiche e degli strumenti per promuovere e governare il cambiamento. Ma non c’è il tempo per attivare questo processo prima che la situazione precipiti, mentre è chiaro che con i soggetti in campo e le risorse oggi disponibili anche quest’ultimo appello lanciato dall’ONU rimarrà inascoltato. L’ONU stessa, che pur sa diagnosticare i disastri, non ha mostrato capacità alcuna di porvi rimedio: nemmeno le guerre è riuscita a bandire, ciò per cui pure era sorta, e anzi molte ne ha legittimato e qualcuna addirittura gestita.
Sono necessari perciò provvedimenti immediati e inediti rimedi; una prima cosa da fare riguarda proprio l’ONU: andando oltre le procedure degli accordi tra Stati per ogni decisione da prendere, occorrerebbe istituire un’Unità di crisi, facendo anche tesoro dell’esperienza del Consiglio di Sicurezza, per interventi d’emergenza e scelte vincolanti per tutto il mondo, che abbiano il supporto di strumenti adeguati.
Occorrerebbe poi andare oltre gli schemi seguiti da quanti finora hanno occupato tutta la scena, cioè dagli Stati e dai grandi soggetti economici che sono anche più potenti di loro; a entrare in scena dovrebbero essere i popoli e i loro movimenti, con gli Stati o in dialettica con loro; e tra questi Stati dovrebbero essere chiamati in causa quelli che storicamente sono stati tenuti ai margini e senza i quali oggi il mondo non è neanche concepibile. Si pensi alla Cina, che per decenni è stata esclusa dall’ONU, con la finzione che vi fosse presente attraverso Taiwan, e che ancora oggi l’Occidente esorcizza e cerca di isolare. Ma la Cina è il più grande dei Paesi in via di sviluppo, ha alle sue spalle una straordinaria esperienza politica, ed è il solo Paese che pensa se stesso in stretta connessione con l’intera comunità mondiale, non a partire dall’ideologia dell’imperialismo, ma teorizzando una nuova politica internazionale volta a costruire una “Comunità umana dal futuro condiviso”. Nel proporlo i cinesi ricordano una loro antica massima secondo la quale “un filo di seta non fa una trama e un singolo albero non può creare una foresta”, criticano l’idea dello scontro di civiltà e propugnano rapporti “che incarnino armonia, diversità e inclusività”. Le loro politiche non saranno innocenti, le loro strade non saranno le nostre, ma intanto bisognerebbe saperne e capire di più.
Quello che non possiamo fare è di non rimettere in discussione le culture e le storie che ci hanno portato fin qui, in una condizione che viene descritta, e non dalla letteratura apocalittica, da fine del mondo.
E c’è una questione, che era stata messa tra parentesi in questa età di secolarizzazione, e forse bisogna ora riprendere in mano, la questione riaperta dalla novità di papa Francesco, la questione di Dio. La modernità l’ha considerata chiusa, anche se il suo teorema, che l’uomo basti a se stesso, non è più così evidente alla prova dei fatti. L’ateismo aggiunge le sue ragioni, ben motivate. Heidegger ha lasciato aperta la domanda se solo un Dio ci può salvare. Per i cristiani le cose si sono fatte più difficili: in quanto abbiano conservato la fede, essi sono certi che il Dio di Gesù Cristo è coinvolto nella storia umana, però non cercano miracoli né credono più in un Dio tappabuchi, e ora hanno anche a che fare con i post-teisti, che mettono il Vangelo nel ripostiglio dei rifiuti. Ma in questo clima da ultimi tempi, torna la questione se tra le risorse da mettere in campo c’è, come era stato il caso di Ninive, la risorsa di Dio. Non perché alcuno possa disporne, che creda o non creda in lui, ma perché il modo di intendere se stessi rispetto all’esserci o non esserci di lui cambia per ciascuno il modo di stare sulla terra.