Occorre un nuovo accordo di convivenza internazionale *
Lettere 1. La guerra divide inevitabilmente i diretti contrapposti protagonisti, ma spinge anche a trasformare in scontro ogni confronto tra coloro che se ne occupano. Discuterne senza polarizzazioni è divenuto […]
1. La guerra divide inevitabilmente i diretti contrapposti protagonisti, ma spinge anche a trasformare in scontro ogni confronto tra coloro che se ne occupano. Discuterne senza polarizzazioni è divenuto quasi impossibile, ha rilevato con rammarico Mario Giro, meritoriamente impegnato da settimane in analisi argomentate e proposte di soluzioni. Polarizzazioni pervasive e velenose, soprattutto in Italia, dove «siamo sempre alle prese con la lotta faziosa dei Guelfi e dei Ghibellini, a loro volta divisi in fazioni per giungere a una contesa tra individui» (N. Urbinati).
A tale tendenza non si sottrae parte della sinistra, da tempo più impegnata a esaltare le proprie divisioni che ad elaborare soluzioni ai problemi. Per contrastare tale deriva autolesionistica è necessario assumere un atteggiamento di reciproca disponibilità alla contaminazione delle opinioni. Mettersi in ascolto delle ragioni dell’altro è la premessa indispensabile per sottrarsi a due nefasti effetti che il clima di guerra ha determinato: manicheismo delle posizioni e “sindrome del tradimento” (addebitato soprattutto all’abituale compagno di idee che dissente dalle nostre opinioni). Non mi pare di alcuna utilità, in questa fase, discutere ancora sull’aiuto armato alla resistenza ucraina. Il tema è cronologicamente superato da quanto è stato già deciso e non giova continuare a polemizzare. Vale la pena, piuttosto, confrontarsi su ciò che è urgente e prioritario fare per fermare la guerra e per tentare di superare il clima avvelenato alimentato da un sistema politico–mediatico allineato (deliberatamente o servilmente) al complesso militare–industriale.
In questa prospettiva, le analisi storiche utili sono quelle funzionali a individuare una via di uscita, evitando errori già commessi in passato. Nella storia che, sommariamente e a grandi linee, fa parte della nostra cultura, la competizione e il conflitto hanno costituito elementi normali e abituali per conseguire e mantenere il dominio di pochi (sia a livello collettivo sia a livello e interpersonale); competizione e conflitto sovente trasmodati in violenza e guerra, come di solito avviene quando i conflitti non sono hanno regole.
Per secoli la guerra è stato lo strumento normale degli Stati sovrani per affermarsi e per risolvere controversie con gli altri Stati. Tale strumento non solo era normale, ma anche pienamente legittimo, anzi riconosciuto come la massima espressione della sovranità assoluta degli Stati (da Westfalia in poi). Legittimo fino al 1945, quando – sull’orrore di decine di milioni di morti causati da due guerre mondiali nate in Europa – fu pronunciato un solenne MAI PIÙ, con l’approvazione dello Statuto e la costituzione delle Nazioni Unite. Da quel momento la guerra è divenuta illecita ed è consentita soltanto come mezzo di difesa dalle aggressioni (art. 51 dello Statuto Onu e art. 11 della Costituzione italiana, che la guerra ha ripudiato «come mezzo di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»).
2. Tutto il sistema delle N.U. (pari dignità delle persone e degli Stati, liberazione dai domini coloniali e autodeterminazione dei popoli, diritti umani e diritti dei popoli, costituzione di tribunali internazionali, etc.) è volto a prevenire la guerra, ciò che in concreto significa doveroso impegno a costruire la pace, sulla consapevolezza, espressa nel preambolo dello Statuto, che la violazione dei diritti e della giustizia mettono in pericolo la pace e che, al tempo stesso, la pace è il presupposto dell’effettività dei diritti e della giustizia.
Dal 1945 non sono più riconosciute sovranità assolute, ma diversi sistemi politici, comunque tra loro interdipendenti. L’invasione di uno Stato e l’aggressione di un popolo per risolvere controversie internazionali (pur se motivate da ragioni fondate) costituiscono comportamenti e atti illeciti, produttivi di crimini che l’ordinamento sanziona e punisce. Le controversie tra Stati vanno risolte con negoziati bilaterali o multilaterali, sulla base del diritto internazionale specifico o generale.
Questo è il dover essere, ciò che deve essere, che ha fatto crescere nel mondo la cultura della pace, come hanno testimoniato a più riprese centinaia di milioni di persone, con le loro manifestazioni pacifiche contro le guerre. Non è cresciuta però da parte degli Stati, e soprattutto delle grandi potenze, comprese quelle che alzano la bandiera dei “valori democratici universali”, né la coerenza tra parole e comportamenti né la pratica e la costruzione della pace, ossia la realizzazione di condotte e azioni volte a prevenire le guerre. Anzi, quel “mai più” è stato ripetutamente violato in questi decenni (Corea, Vietnam, guerre del 2000, Iraq, Afganistan, Cecenia, Georgia, Siria, Yemen…).
Il sistema onusiano ha costituito una tappa fondamentale di progresso: ha rifiutato la logica del Trattato di Versailles (1919), che aveva preteso di imporre la pace con spirito di vendetta verso la sconfitta Germania; ha cambiato il paradigma del diritto internazionale e del criterio di liceità/illiceità della condotta degli Stati; ha legittimato la liberazione e l’autodeterminazione dei popoli; ha affermato il primato dei diritti umani come fondamento dell’ordinamento di convivenza. Tutto ciò ha avuto progressive realizzazioni (non senza contraddizioni) soprattutto per effetto delle risoluzioni dell’Assemblea generale e dell’azione delle varie Agenzie (Undp, Unesco, Fao, etc.).
Quel sistema, tuttavia, ha mostrato la intrinseca debolezza per vizi d’origine, che potevano ritenersi necessitati e inevitabili nell’immediato dopoguerra, ma che ormai da decenni costituiscono il vero impedimento all’azione di pace delle N.U., azione che non può dispiegarsi “per costituzione” nei confronti delle grandi potenze che dominano e paralizzano il Consiglio di Sicurezza con il diritto-potere di veto.
E’ la logica “imperiale” delle grandi potenze e della geopolitica, con i connessi strumenti di dominio (sfere di influenze, alleanze militari, corsa agli armamenti, minaccia nucleare, occupazione e privatizzazione dello spazio atmosferico, uso della tecnologia a scopo di dominio, utilizzazione predatoria delle risorse naturali…), che va superata e battuta, giacché costituisce un potenziale attentato alla pace e un permanente fattore di conflitti e di guerre.
3. Le considerazioni che precedono possono guidarci nella valutazione della tragedia in atto e per individuare possibili soluzioni, diversi dall’annichilimento e dalla sconfitta dei contendenti.
Le ragioni e i torti non sono mai da una sola parte. Hanno concorso al precipitare del conflitto in scontro bellico anche comportamenti degli USA e della Nato che hanno operato senza considerare il dovere e la necessità di prevenire rischi di guerre e di costruire la pace. La miopia dell’Occidente – che non colse l’occasione della caduta del Muro per coinvolgere tutti i Paesi (e in particolare le Repubbliche che avevano costituito l’Urss, a cominciare dalla Federazione Russa) in un nuovo accordo di convivenza internazionale, superando le vecchie logiche di alleanze e di contrapposizioni armate (che sono state anzi progressivamente allargate e potenziate) – ha costituito un fattore che concorre a spiegare la condotta, ad un tempo imperiale e nazionalistica, del regime autocratico della Federazione russa.
Ma spiegare non implica in nessun modo giustificare. Deve rimanere netta la differenza tra chi ha mancato al dovere di farsi carico delle conseguenze (non importa se volute o meno) delle proprie azioni, al fine di prevenire ogni rischio di guerra (come impone la costruzione della pace) e chi ha violato il divieto posto a fondamento di tutto il sistema del diritto internazionale nato nel 1945: il divieto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
In un caso si è di fronte a politiche e a strategie sbagliate, quando non avventuristiche, che vanno contrastate; nell’altro a condotte illecite di aggressione e di guerra, che vanno condannate.
4. Come uscire da questa crisi? Certo non basta la minaccia, spesso puramente retorica, del processo penale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il diritto penale sanziona i crimini già commessi. La punizione dei colpevoli, dopo il giusto processo, è la riaffermazione del valore delle regole di convivenza, a livello interno e internazionale. Nei giorni scorsi è divenuta definitiva la condanna a 12 anni di reclusione dei carabinieri responsabili della morte di Stefano Cucchi. Quella condanna restituisce la verità alla famiglia Cucchi e a tutto il Paese e costituisce un monito per ricordare che non c’è impunità per il pubblico ufficiale che abusa del suo potere e usa violenza alle persone. Lo stesso vale per i crimini di guerra e contro l’umanità.
In proposito non possiamo non rimarcare la paradossale e ipocrita richiesta del Presidente Biden che – mentre elude il suo principale dovere di negoziare per far cessare subito la guerra – invoca il processo e la punizione per crimini di guerra a nome degli Stati Uniti, i quali – come Russia, Cina, India e Israele – non hanno ratificato il trattato istitutivo della Corte penale internazionale, e anzi hanno stipulato (di fatto imposto a Paesi economicamente ricattabili) accordi bilaterali con Stati che avevano già ratificato, al fine di impedire ogni loro collaborazione con la CPI.
La pace non si costruisce a parole, ma operando coerentemente per rafforzare le istituzioni internazionali idonee a infrenare le pulsioni belliche e capaci di realizzare accordi per mettere al bando gli armamenti, cominciando dall’adesione e dalla ratifica del Trattato per la proibizione delle armi nucleari, disertato dalle potenze che detengono ordigni nucleari e dai loro alleati (Italia compresa).
E’ urgente realizzare la cessazione immediata delle atrocità in atto e dello scontro armato. La pace va costruita per tempo e la guerra va prevenuta. Ma quando essa è in atto va fermata con la politica! Non può essere fermata con il diritto penale, e tanto meno con altri atti di aggravamento dello scontro bellico.
Al di là degli appelli, occorre creare le condizioni perché i belligeranti (Russia, Ucraina, Usa) decidano la cessazione della guerra in atto. Le stesse sanzioni economiche (rivelatisi del tutto inefficaci in altre occasioni) hanno un senso soltanto se finalizzate alla cessazione della guerra e per indurre alla trattativa, non per conseguire la caduta del regime di Putin o la vittoria della democrazia sull’autocrazia. Dall’illusione della esportazione armata della democrazia dovremmo essere guariti dopo i disastri fatti in Medio Oriente e in Afghanistan!
5. Occorre fare appello alla responsabilità di tutti per realizzare uno strumento condiviso per uscire al più presto dalla crisi in atto. Ogni giorno che passa aumenteranno le difficoltà, perché cresceranno le sofferenze, si moltiplicheranno le atrocità, si accumuleranno gli odi reciproci che continueranno a covare anche a guerra finita, mettendo le premesse per nuovi conflitti e nuove guerre. L’Europa occidentale è stato per secoli teatro di guerre infinite, con intervalli di tregua. L’odio e l’ostilità tra francesi e tedeschi ha trovato soluzione soltanto quando i vincitori della II^ guerra mondiale (tra cui la Francia) non solo non infierirono sulla Germania responsabile della guerra, ma la coinvolsero, insieme all’Italia, in un progetto di sviluppo pacifico, nel cui clima – grazie a uomini e donne lungimiranti – nacque la Comunità e poi l’Unione europea.
Pare dunque indispensabile e urgente una Conferenza di pace, che cominci innanzitutto a farsi carico delle questioni che hanno condotto all’attuale situazione di conflitto. Occorre chiamare in causa il dovere e la responsabilità delle organizzazioni internazionali esistenti, a cominciare dall’ONU, di cui giustamente papa Francesco ha denunciato il fallimento nella principale missione di prevenzione della guerra e di garanzia della pace. L’Onu va rilanciata e democratizzata sul base del principio della pari dignità dei suoi componenti. Un suo attivo e deciso ruolo nella soluzione di questa crisi può restituirle la credibilità che si è andata via via affievolendo per responsabilità principale degli Stati che detengono il potere di veto nell’ambito del Consiglio di sicurezza.
Nell’inerzia diplomatica delle grandi potenze (Stati Uniti e Cina), deve essere l’Unione europea, che nel suo Trattato dichiara di voler rafforzare «la sua indipendenza al fine di promuovere la pace, la sicurezza e il progresso in Europa e nel mondo», a lanciare all’ONU la formale proposta di una Conferenza di pace, con l’obiettivo di ricercare e concordare un nuovo accordo di convivenza internazionale, lontano da ogni spirito di vendetta verso chicchessia. I funesti effetti di Versailles sulla crescita dei nazionalismi nella prima metà del ‘900 dovrebbero averci insegnato che dalle crisi si esce soltanto con un accordo che guardi al futuro, coinvolgendo positivamente tutti gli attori della comunità internazionale.
Solo così, nel rispetto della pari dignità di tutti i Paesi e di tutti i popoli e con un metodo di effettivo multilateralismo, può determinarsi un concorso di tutti al mantenimento della pace, evitando la contrapposizione Occidente/Cina-Urss, drammatica per il futuro del mondo.
Per dare credibilità e legittimazione all’Unione europea occorre però contrastare con determinazione la corsa al riarmo, che ha avuto una accelerazione con la decisione di raggiungere per spese militari il 2% del bilancio, tanto più considerando che quelle spese dei 27 Paesi europei ammontano già a ben oltre il triplo di quelle della Federazione russa. Ma ciò che più deve allarmare è che l’aumento di 100 miliardi per spese militari – improvvisamente deciso dal nuovo governo tedesco, nell’irresponsabile silenzio dei partner europei – contraddice 60 anni di quella nuova identità pacifica dalla Germana federale, che fu rilevante per l’assenso degli altri Paesi alla riunificazione tedesca.
Più che polemizzare sulla scadenza temporale di raggiungimento del 2% (2024, 2028, 2030), i partiti italiani e il sistema mediatico di supporto dovrebbero interrogarsi sulle allarmanti prospettive che si vanno delineando per l’Unione europea che uscirà da questa crisi, se ogni paese continua a perseguire strade nazionali senza affrontare prioritariamente il problema della unificazione – in ambito comunitario e non intergovernativo – della politica estera e di sicurezza, comprensiva quanto meno di un coordinamento di difesa comune, su base di indipendenza europea.
L’aumento delle spese militari, sul piano operativo del tutto irrilevante per l’attuale conflitto, non soltanto rischia di ostacolare l’avvio di una trattativa seria per arrivare al più presto alla fine della guerra, ma prefigura nei fatti un’Unione europea che rinnega se stessa e i valori dei suoi padri fondatori e ispiratori (a cominciare da Altiero Spinelli). La corsa verso il riarmo dei diversi Stati alimenta inevitabilmente i vari nazionalismi (con gioia delle destre italiane e francesi) e aiuta a realizzare gli obiettivi del complesso militare -industriale di ogni Paese. Complesso del quale, già nel 1961, fu denunciato il permanente pericolo per la democrazia, e non da parte di un sognatore pacifista, ma di una personalità che ben si intendeva di armi, di guerre e di politica, Dwight Eisenhower nel discorso di addio alla Presidenza degli USA.
Testo rivisto del contributo al dibattito sulla guerra in Ucraina avviato dall’associazione Laudato Si con il webinar del 4 aprile 2022. Il presente contributo costituisce anticipazione del fascicolo di Questione Giustizia trimestrale, di prossima pubblicazione, dedicato ai temi della guerra e della pace.