L’Indonesia ci guarda
SPORT Nel settembre 1989 gli ultras dell’Hellas Verona accolsero i tifosi napoletani in trasferta allo stadio Bentegodi al grido di «Vesuvio facci sognare» e «Terroni puzzate». Nella stessa occasione dagli spalti […]
SPORT Nel settembre 1989 gli ultras dell’Hellas Verona accolsero i tifosi napoletani in trasferta allo stadio Bentegodi al grido di «Vesuvio facci sognare» e «Terroni puzzate». Nella stessa occasione dagli spalti […]
Nel settembre 1989 gli ultras dell’Hellas Verona accolsero i tifosi napoletani in trasferta allo stadio Bentegodi al grido di «Vesuvio facci sognare» e «Terroni puzzate». Nella stessa occasione dagli spalti penzolò uno striscione con su scritto «Forza Vesuvio». L’episodio divenne uno dei più citati da commentatori e storici per inquadrare il ribollente calderone da cui ebbero origine le fortune elettorali della Lega nord. Ma si trasformò in una pietra miliare della cultura pop quando i napoletani alla partita di ritorno innalzarono un altro celebre striscione: «Giulietta è ‘na zoccola». Con e senza Maradona, il Napoli battè il Verona in entrambe le partite.
Questi i ricordi che venivano in mente all’apertura del campionato italiano di calcio 2013-2014, ieri sera. Il ritorno in serie A dell’Hellas Verona dopo undici anni di purgatorio è di quelli da ricordare: battuto 2-1 il Milan di Balotelli, doppietta del redivivo Luca Toni. Sbiadiscono così le scaramucce che avevano preceduto la partita: Supermario aveva preannunciato una risposta «sul campo» a eventuali cori razzisti; il sindaco leghista Tosi – ragazzo ai tempi del Verona di Bagnoli e superstite di una stagione politica al tramonto – lo invitava al solito a «non provocare» (e così anche il suo compare Matteo Salvini, milanista); Balotelli ancora postava su twitter il grido di battaglia «Veronesi vi presento un bresciano!» rinfocolando vecchi odi provinciali tra le tifoserie. Il pubblico di Verona, infine, ha applaudito a prescindere il centravanti rossonero. Ironicamente, aggiungono gli osservatori. Meglio così, comunque.
La stagione del solo Balotelli è uno dei motivi più interessanti per seguire il campionato che inizia, e porterà dritti dritti, lui e gli azzurri, al mondiale brasiliano. Quanto al razzismo da stadio (antipatico, ma parecchio meno ormai del razzismo fuori dallo stadio), c’è una novità. Da quest’anno gli articoli 11 e 18 del Codice di Giustizia Sportivo comprendono tra le sanzioni immediate in caso di «comportamenti discriminatori» la chiusura di un settore dello stadio, la curva. È già serrata per un turno la Nord laziale dopo i buu allo juventino Pogba nella finale (persa malamente) in Supercoppa. Stessa sorte per la Sud romanista. È troppo? Si poteva fare prima? Quante altre ne chiuderanno? Il provvedimento ha una sua spiccia modernità. Come, per altri versi, l’uso di Twitter da parte dei calciatori.
Ci sarà un Verona-Napoli, nel gennaio del prossimo anno. Un andata, e un ritorno. Si fa strada l’idea che la clamorosa scelta della maglia da trasferta camouflage, mimetica, da guerra, dello squadrone di Aurelio De Laurentis abbia anch’essa un vago sottofondo ironico. Speriamo. Più di una gallery in Rete ci ricorda che maglie mimetiche sono state indossate a suo tempo dal club di extrasinistra St. Pauli, dall’Everton e persino dal Bassano sponsorizzato Diesel. Ma in questo tipo di classifica da appassionati all’ultimo stadio, la maglia più incredibile resta quella nero-arancio- tigrata indossata negli anni ’90 dall’Hull, serie B inglese. Pare che la maglia nero-verde-azzurra del Napoli, presentata in fotografia addosso a Hamsik, sia già un successone nell’economia taroccata di laggiù. Ce n’è motivo. L’uomo dei film di Natale mostra ancora di conoscere il suo pubblico.
Chi vincerà il campionato? Juventus o Napoli dicono gli esperti, favoriti in quest’ordine. E ci vuole poco: la Juve di Conte, tornata spaventosamente antipatica con tutti gli interessi maturati nei recenti anni di scandali, ha aggiunto ai suoi l’argentino Tevez detto l’Apache. Ormai trentenne, e con una carriera da erede di Maradona rimasta molto al di sotto delle aspettative tranne che per un certo modo argentino e irruento di interpretare il ruolo. Abbandonato, e da mo’, il barrio, Tevez è da tempo proprietà di un fondo di investimenti multinazionale con sede nelle Isole Vergini: ha indossato le maglie del Corinthians, West Ham, Manchester United e City (dove ha mortalmente litigato con Mancini), lucrando laute percentuali a ogni cambio di casacca. È argentino come lui anche il nuovo bomber del Napoli, Gonzalo Higuain: sei stagioni di Real Madrid, 136 gol in 305 partite di club. Sarà l’erede di Cavani, con buone probabilità di riuscita.
Il ritorno dei cosiddetti top player nel nostro campionato è uno di quei temi che inorgoglisce i giornali sportivi. E sia. A Tevez e Higuain va aggiunto Mario Gomez campione d’Europa col Bayern Monaco, comprato dalla Fiorentina per 20 milioni di solo cartellino più stipendi e bonus. È l’operazione più costosa dell’era Della Valle, così da quelle parti se la godono. Gomez, oltre ai gol, porta in Italia anche una certa rilassata attitudine tedesca: fidanzata bonissima, un vecchio invito ai colleghi gay dello spogliatoio a fare coming out senza problemi, e un certo sense of humor: «Mi sento fiorentino», ha detto appena sbarcato all’aeroporto di Peretola con volo privato.
Ovvio però che il top player vero, in tutti sensi e se l’affare va in porto, sarà quell’Erick Thoihr tycoon indonesiano pronto a rilevare la maggioranza dell’Inter dall’esausta (economicamente almeno) famiglia Moratti che ci ha buttato, pare, quasi due miliardi in 18 anni. Le trattative continuano fino a inizio settembre. Thoihr possiede un impero dei media laggiù (tra cui un importante quotidiano dal nome per noi curioso: Republika); partecipa alla proprietà della squadra Nba di Philadelphia e al club calcistico di Washington, Dc United. Lo sbarco nel calcio italiano lo renderebbe poco meno che un dio in patria, dove l’Inter è una mezza religione assieme al basket Nba, appunto. Nel 2014 le elezioni presidenziali vedranno in lizza il suo alleato in affari (il nome compare anche nell’affare Inter) Aburizal Bakrie, ex ministro dell’economia, appartenente a una potente famiglia del capitalismo di laggiù, presidente e candidato del partito Golkar che faceva da macchina del consenso al vecchio Suharto, oggi conservatore e musulmano.
Un berluschino, insomma, sufficientemente esotico da poterselo addirittura permettere. Che mette in secondo piano, per il momento, il problema del nuovo allenatore nerazzurro Mazzarri: mettere in piedi una squadra degna di questo nome. E fa ombra, sull’altra sponda milanese, alle sorti dell’Originale. Nei giorni scorsi Berlusconi ha incassato la solidarietà dell’allenatore Allegri per il momento «difficile, anzi difficilissimo». Chiuso ieri il supervertice di Arcore in tempo per la partita del Milan, si è beccato pure la sconfitta nella «fatal» Verona. Il Milan non è cambiato in niente: di Balotelli abbiamo detto, il tasso di fighetteria giovanile è alto, la squadra lenta e non imbattibile. Il risultato in bilico del preliminare di coppa contro il Psv Eindhoven potrebbe riaprire pure il «caso» Allegri.
A proposito di soldi, uno sguardo andrebbe dato al patron del Sassuolo, esordiente assoluta in serie A agli ordini dell’allenatore Eusebio Di Francesco, ex gloria romanista (e sempre a Sassuolo, Allegri allenò per una stagione): Giorgio Squinzi, milanese e milanista, è amministratore unico della Mapei e presidente della Confindustria. Il distretto emiliano delle piastrelle (magnificato a suo tempo dal giovane Romano Prodi) combatte colpo su colpo la concorrenza cinese, e stando agli indicatori economici, è in ripresa. Per questo si dice che l’unico presidente davvero capace di affrontare una Champions League di tasca sua sarebbe lui. I tifosi del piccolo Sassuolo, maglia nero-verde, sognano. Non fino a questo punto, speriamo.
Resterebbe da dire qualcosa delle altre squadre, ma per motivi di spazio e campanile ci fermiamo su Roma e Lazio, in preda per il momento a una cupa rassegnazione. I 4 gol beccati dalla Juve in Supercoppa non sono un buon presagio per i biancazzurri che, tuttavia, si consoleranno per i prossimi due secoli almeno con la vittoria sulla Roma nella partita fine-di-mondo della scorsa stagione, in Coppa Italia. La Roma americana a sua volta ha venduto i suoi pezzi migliori o quasi (Marquinhos, Osvaldo e pare certo anche la giovane promessa Lamela), ma non De Rossi. Il presidente Pallotta e i suoi collaboratori si comportano con una disinvoltura stile Nba negli arrivi e nelle partenze che a queste latitudini è una mezza follia. Incassano il fallimento delle due stagioni precedenti. Ne fa le spese il nuovo centravanti Gervinho, già soprannominato «Mocio Vileda» per via dell’infelice scontro tra calvizie incipiente e treccine rasta che si ritrova sulla testa. Il nuovo allenatore Garcia, francese, è uomo di mondo e kamikaze.
«Chi contesta la Roma è della Lazio», ha detto appena sbarcato a Trigoria, e la faccia più truce della curva Sud è impazzita di rabbia a livelli mai visti. Totti affronta l’ennesimo campionato della sua leggendaria carriera. Un’altra buona notizia per il campionato che va a iniziare.
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