Editoriale

L’ipocrisia come forma di governo

L’ipocrisia come forma di governo

Il golpe in casa Del resto bastava guardare a 70 anni di storia per capire che gli Stati uniti, che si battono contro le ingerenze altrui, nelle crisi internazionali, abbiano costruito la distruzione della democrazia altrui, attraverso un sistema violento di ingerenza politica e militare con colpi di stato

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 12 dicembre 2021

Avete presente, lo «stupore» del governo Draghi di fronte alla proclamazione dello sciopero generale del 16 dicembre per l’iniquità della legge di bilancio? Non è stupore, è ipocrisia. Sono pienamente consapevoli che la legge di bilancio è limitata e sbagliata di fronte al peso delle diseguaglianze che dilagano con in più la condizione della pandemia, ma è come se dicessero: «Che volete di più?». Malcelata e sottesa alla stupefazione fa capolino l’ipocrisia consapevole, che sbatte sul piatto della bilancia l’attualità dei rapporti di forza tra le classi.

E se volgiamo lo sguardo alle cose del mondo, è quasi peggio. L’anno che volge al termine si è aperto con un evento epocale- paragonabile alla caduta del Muro di Berlino – l’assalto dei riots al Campidoglio americano, simbolo della democrazia statunitense, contro «il furto della vittoria presidenziale di Trump». Sull’evento oggi si celebrano processi che tuttavia sembrano riattivare la pancia reazionaria e di massa dell’America e lo stesso Donald Trump, mentre, denunciano il Guardian e il New York Times, emerge anche un sordido golpe preparato da Trump, con tanto di stato d’assedio militare pronto, per fermare l’insediamento di Biden. All’assalto guardò uno sgomento e immobile neoeletto Joe Biden. «Non è questa la faccia dell’America – gridò Biden – il mondo ci guarda, noi siamo il faro della democrazia».

Ma quel giorno il «faro» si spense e Alan Friedman, non un bolscevico, commentò: «Ora non possiamo più essere il modello di democrazia nel mondo». Se fosse andato in porto il golpe di Trump saremmo stati alla nemesi cilena della storia americana.

Del resto bastava guardare a 70 anni di storia per capire che gli Stati uniti, che si battono contro le ingerenze altrui, nelle crisi internazionali, abbiano costruito la distruzione della democrazia altrui, attraverso un sistema violento di ingerenza politica e militare con colpi di stato – c’è un nuovo libro illuminante da leggere “Sistema Giacarta” – finanziamento di paramilitari (anche in Italia), e soprattutto guerre, tante guerre impunite delle quali soffriamo i nostoi, i tragici ritorni che si chiamano profughi, una umanità disperata quanto cancellata; e il terrorismo come risposta asimmetrica, violenta e sanguinosa anch’essa, alle aggressioni militari che hanno devastato generazioni e continenti a partire dal Medio Oriente.

Fino al ritiro Usa dall’Afghanistan la cui occupazione militare con la Nato è durata 20 anni, ma come «vendetta per l’11 settembre 2001» non certo per la democrazia: parole di Biden. Che torna nella crisi ucraina come un elefante, dimentico del suo coinvolgimento personale non limpido nelle vicende di Kiev fin dalla rivolta oscura di Piazza Majdan, per riaprire lo scontro con la Russia (che il capo di stato maggiore Usa Austin chiama ancora «Unione sovietica»), rea di «aggressione» perché muove le truppe entro i suoi confini però – le aggressioni belliche Usa sono state ben altra cosa e purtroppo fuori dai suoi confini. Poi, se un’alleanza militare offensiva come è la Nato – rivitalizzata con il pericoloso allargamento a Est che circonda la Russia con sistemi d’arma, basi, missili, manovre dal Baltico al Mar Nero -, si allargasse ai confini Usa saremmo già alla Terza guerra mondiale.

Così ha promosso un vertice con Putin dal quale il leader russo – che in quanto ad ipocrisie non scherza – è uscito mezzo vincitore, perché si è reso evidente che quella potenza è tutto meno che in declino. Se ne deve essere accorto tardivamente Biden perché da due giorni la Casa bianca tuona che saranno gli Stati uniti a decidere sull’ingresso nella Nato dell’Ucraina. Rischiamo un Afghanistan nel cuore d’Europa: a deciderlo sarà Biden.

Non è dato poi capire che cosa sia realmente cambiato negli Usa in questi quasi dodici mesi, se non la pandemia – che dovremmo «ringraziare», ahimé, se nella cruda Europa ha permesso finora la sospensione del patto di stabilità – finalmente riconosciuta dopo il negazionismo di Stato trumpiano e per la quale vengono impegnati montagne di finanziamenti. Ma la stagione americana resta attraversata da diseguaglianze profonde, di reddito, di razza, di genere – per non dire della guerra civile strisciante che l’attraversa -, mentre in numerosi Stati viene rimesso in discussione anche il diritto di voto. Per i migranti Biden riedita la politica trumpiana del respingimento e del Muro per la marea umana in fuga dall’America centrale e dall’America latina verso i confini del Messico.

Ma l’ipocrisia americana è inarrestabile: ha avviato sanzioni contro la Bielorussia per il suo ruolo vergognoso nella pressione dei profughi afghani alla frontiera polacca usandoli come squallida arma politica, mentre gli Usa stabiliscono un nuovo rapporto politico-istituzionale di forza con Messico e America centrale basato sui respingimenti dei migranti e in forza del Muro americano alla frontiera. Parafrasando Orwell e guardando le tendopoli nostrane ora al gelo, dal Pas de Calais, a Ventimiglia, al confine di fili spinati spagnolo, ai boschi polacchi, alla Bosnia, se il presidente bielorusso Lukashenko è un porco come distinguerlo dai maiali europei e occidentali?

Nonostante tutto questo Biden si è fatto promotore di un «summit per la democrazia» esclusivo dei cattivi e dei nuovi nemici, riproponendo gli Usa come faro, senza avere risolto alcuno dei problemi che ha in casa, e scegliendo come interlocutori altri «fari» quali Bolsonaro, Erdogan, il Pakistan, il governo polacco sotto infrazione dalla Corte Ue per violazione dello stato di diritto. Un’operazione che il settimanale Time ha definito una «vetta di ipocrisia».

A riprova, nello stesso giorno del summit è arrivata la nuova sentenza contro Julian Assange, che con Wikileaks è stato il «giornalista diffuso» che ha rivelato i crimini delle guerre occidentali in Iraq e Afghanistan. Ora Assange è estradabile negli Stati uniti. Lo aspetta un tribunale per accusarlo di tradimento. Con lui è colpita a morte la libertà d’informazione, cuore di ogni democrazia. Il faro americano resta spento.

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