L’Italia e la tempesta perfetta
Il discorso di Trump in risposta all’attacco missilistico contro la base Usa in Iraq, non è l’annuncio di un pari e patta com’era da sperare, al contrario è un rilancio: […]
Il discorso di Trump in risposta all’attacco missilistico contro la base Usa in Iraq, non è l’annuncio di un pari e patta com’era da sperare, al contrario è un rilancio: […]
Il discorso di Trump in risposta all’attacco missilistico contro la base Usa in Iraq, non è l’annuncio di un pari e patta com’era da sperare, al contrario è un rilancio: chiama in causa la Nato «da riposizionare in Medio Oriente»; muove sanzioni all’Iran – che però «deve prosperare» – e che «non avrà mai l’arma atomica» e che ha avviato una nuova stagione «terrorista» anche «grazie ai miliardi dell’accordo sul solo nucleare civile propiziato dall’Amministrazione precedente» (quel «terrorista» di Obama, insomma); giustifica ancora l’assassinio di Qasem Soleimani – una violazione del diritto internazionale per l’Onu – perché era «il principale terrorista al mondo» e rivendica alla sua Amministrazione, con l’uccisione di Al Baghdadi, la sconfitta di migliaia di affiliati allo Stato islamico – che invece è stata opera non degli Stati uniti, fuori gioco in Siria per i troppi rovesci subiti, proprio delle forze iraniane e degli hezbollah guidati da Soleimani, dei curdi, dell’esercito siriano e dei russi, mentre ancora al-Qaeda resiste a Idlib e l’Isis, sempre ispirazione dell’Arabia saudita, si riorganizza. E poi annunciando: «Non ci avete fatto nulla», quasi a dire: non avete fatto goal.
Attenzione quello in corso non è un atteso derby calcistico ma una precipitazione di guerra non solo regionale, bombe e missili dicono che non è solo propaganda, rischiamo grosso vista la rilevanza dei protagonisti in campo.
Qualcuno ha perfino titolato «Iran, primo atto di guerra» sui missili contro la base Usa, ma è almeno il secondo dopo l’uccisione del numero 2 iraniano.
A meno che non si voglia prendere per buona l’affermazione dello psycho presidente Trump: «Io non voglio la guerra». Viene da chiedersi: ma se avesse voluto la guerra che avrebbe fatto? Così come l’annuncio vendicativo iraniano di fare dell’Iraq «un nuovo Vietnam per gli Stati uniti» altro non dovrebbe essere che un grido di rabbia e vendetta, invece pensarlo come proposito è guevarismo da strapazzo.
L’Iran e l’Iraq – già vietnamizzato – non hanno bisogno di diventare la terra desolata del Vietnam come appariva nel 1975 alla fine dell’aggressione americana.
Dove, certo, gli Stati uniti uscivano con la coda fra le gambe ma dopo avere fatto una terra bruciata di disastri, eccidi, distruzioni che ancora pesano. I vietnamiti che combattevano ci chiedevano di scendere in piazza perché a quello scempio doveva essere messa la parola fine: ne andava di ogni trasformazione rivoluzionaria a quel punto ridotta a improbabile ricostruzione forzata.
Allora come oggi è invece la forza delle ragioni della pace che va chiamata subito in piazza a testimoniare. Lo hanno capito per ora solo i pacifisti americani che hanno protestato in più di cento città per dire no ad una guerra all’Iran e ad una nuova guerra all’Iraq.
Sono le ragioni della pace che devono far sentire alta la loro voce. In primo luogo il governo italiano deve tenere fuori dalla guerra altrui, quella di Trump e dei suoi alleati, le nostre basi e i nostri soldati.
E’ una chiacchiera continuare a ripetere che lì siamo benvoluti – Nassirya dovrebbe avere insegnato qualcosa – e infatti ripieghiamo timorosi, quasi ci nascondiamo temendo la reazione perfino di quei soldati iracheni che avremmo dovuto addestrare.
Tenere migliaia di militari a fare da bersaglio – in Libia e in Iraq – mentre incontrollabili attori occidentali giocano al tanto peggio tanto meglio, è irresponsabile; com’è miope tacere e intanto approvare il lavoro per la guerra degli aviatori italiani coinvolti nella base del Qatar da dove il drone che ha ucciso Soleimani – ora lo sappiamo – è partito; le rumorose partenze da Aviano dei militari Usa; il controllo dei droni in cielo a Sigonella.
È ora che disarmiamo la nostra politica estera. La tragicommedia della Libia è lì a ricordarci che ogni guerra che abbiamo attivato ci si ripercuote contro.
L’Occidente vive una tempesta perfetta, quella dei risultati delle guerre scellerate che ha promosso e che a tutti costi ha voluto chiamare ideologicamente «umanitarie». Quella stagione va in pezzi sotto i nostri occhi. Raccogliamo quel che abbiamo seminato, altro che umanitario.
L’impotenza dell’Italia e dell’Unione europea deriva dall’adesione a questo progetto che ha destabilizzato l’intero continente mediorientale e non solo.
E’ convinzione di chi scrive che l’Unione europea non abbia una politica estera e di difesa perché essa è surrogata dall’esistenza dell’Alleanza atlantica che fin qui non ha perso occasione di correre in armi ovunque, a cominciare dai bombardamenti della Libia nove anni fa, e che ora appare a dir poco disorientata.
Come risponderà la Nato, costretta oggi a prendere le distanze dalle scelte unilaterali di guerra di Trump, alle richieste di un suo nuovo diretto coinvolgimento in Medio Oriente? Quanto all’Italia e alla crisi in Libia, ad offrirci davvero la famosa «cabina di regia» non è stato Trump ma la richiesta di cessate il fuoco avanzata ieri a Serraj e ad Haftar – sfilati ieri a Roma dal presidente Conte – proprio dai due “nemici” Putin e Erdogan, usciti vincitori dalla guerra in Siria.
Solo un «agguerrito» pacifismo può restituire credibilità e autorità alle forze che lavorano perché il mondo non sia precipitato in un nuovo baratro senza fondo, in particolare alle Nazioni unite uscite in macerie dalle tante avventure militari che hanno ridotto il diritto internazionale ad un colabrodo fantasma.
ERRATA CORRIGE
Per un refuso, nel primo capoverso è stato corretto il riferimento alle forze iraniane (vedi il corsivo), e non siriane come nell’edizione in edicola.
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