Editoriale

Lo stigma rom tra odio e indifferenza

In questo periodo a Roma la notte ha preso il posto del giorno. E non è solo per effetto del piccolo inverno ritornato. Dilaga infatti una oscura indifferenza, l’amalgama fondamentale […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 5 aprile 2019

In questo periodo a Roma la notte ha preso il posto del giorno. E non è solo per effetto del piccolo inverno ritornato.

Dilaga infatti una oscura indifferenza, l’amalgama fondamentale che tiene in piedi nelle epoche l’ideologia italiana della destra, e non solo purtroppo. Da giorni è andata in scena quella che i media, con più o meno inconsapevole abitudine, hanno chiamano la «rivolta di Torre Maura». Nella cosiddetta «gestione» dello smantellamento dei campi Rom nell’estrema periferia avviato dal Comune – col fiato elettorale sul collo del ministro dell’odio Salvini – proprio mentre si avviava una loro ricollocazione in un centro d’accoglienza finanziato dall’Ue a Torre Maura, non lontano dalla precedente collocazione, è esplosa la protesta dei «qui nun ce li volemo», con la caccia al Rom in quanto indiscriminatamente «ladro», la richiesta esplicita di espellerli dal quartiere, fino al gesto vergognoso di calpestare teatralmente pane e panini a loro inviati al grido teatrale di «devono morì de fame». Quel pane che per Predrag Matvejevic è il simbolo della civiltà del mondo intero.

Davanti, in mezzo, dietro il popolo «sovrano» – siamo al sovranismo di quartiere, ma non è il «dal basso» per conquistare spazi progressivi -, riecco gli impuniti apprendisti stregoni dell’odio, i neofascisti di Casa Pound e Forza nuova, stavolta insieme a dividersi la torta dell’odio contro il più debole di turno.In questo caso non i migranti in fuga da guerre e miserie, ma i Rom contro i quali viene esercitato il marchio di uno stigma sociale. La «rivolta» ha avuto l’effetto di far fare marcia indietro alla sindaca Raggi, i Rom sono stati ri-deportati con tanto di saluti romani. E meno male che in piazza ieri c’era un ragazzino – riecco il mondo salvato dai ragazzini – di 15 anni, Simone, che da solo davanti al presidio di Casa Pound ha avuto il coraggio di difendere i Rom: «Questa gente è trattata come merce – ha detto -. Si va sempre contro la minoranza, ve la prendete sempre coi più deboli, a me non sta bene».

Ma i mestatori di odio torneranno in piazza. Perché quello da smerciare è odio allo stato puro, alimentato dalla falsa coscienza del razzismo. Costringete infatti alla chiusura e ghettizzazione un gruppo sociale che avete etichettato come diverso, sporco, dedito al furto, quasi etnicamente connotato per il malaffare – quando il malaffare a Roma, da Alemanno, a Mafia Capitale all’attuale amministrazione comunale – alligna e risiede in ben altre sedi; impedite poi allo stesso gruppo sociale qualsiasi rapporto con l’integrazione possibile – lavoro, sanità e scuola; obbligate quel gruppo sociale alla marginalità e alla promiscuità senza collegamenti con il mondo esterno. Ecco che questo stigma sociale diventerà esso stesso la motivazione del misfatto che si consuma.

Ma attenti che l’argomento della «periferia», dove verrebbero scaricate a bella posta tutte le irrazionalità, rischia di diventare una scusante dell’indifferenza che dilaga. È vero, il misfatto razzista si consuma nelle periferie brulicanti di questioni sociali irrisolte e di un conflitto di classe inevaso. Ma che dobbiamo fare? «Aiutarli a casa loro»? No, questo è il mondo della globalizzazione: esso è periferizzato. Roma è sostanzialmente la sua mostruosa periferia. E anche quando «diversi» e Rom, sono stati portati nelle aree storiche del centro o di quartieri «bene», anche lì il razzismo ha dato fiato all’odio, cavalcato sempre dall’estrema destra neofascista.

Come non estendere poi il concetto di periferia a tutta Europa. Dove la criminalizzazione dei Rom è all’ordine del giorno. È una fenomenologia europea che rappresenta, per tutti, il segnale di una mancata integrazione politica del vecchio Continente. Che vede l’emergere dei sovranismi nazionali non a difesa dei valori universali della democrazia e del diritto, ma dell’etos etnico come base del consenso e del potere. È l’Europa dove solo ad inizio anno ci sono stati, nel silenzio generale, tre pogrom contro i Rom in Ucraina, dove i Rom sono emarginati legalmente in Slovacchia e Ungheria. E come dimenticare che l’ex premier francese, il socialista Valls, costruì la sua improbabile fortuna elettorale pochi anni fa sulla cacciata dei Rom da Parigi. I Rom sono profughi dai loro insediamento storici, Slovacchia, Repubblica ceca, Bulgaria, ex Jugoslavia. Aspettiamo che Salvini twitti di «rispedirli» in Kosovo, dove abbiamo visto a Mitrovica il loro quartiere incendiato dalle milizie albanesi nostre alleate in guerra? I Rom, pur non avendo mai fatto guerra a nessuno, sono stati costretti alla fuga e a quel «nomadismo» che lombrosianamente i luoghi comuni dei media e della xenofobia vogliono ogni volta attribuirgli, come fosse un elemento del loro dna. Non è così, invece. Alla loro stanzialità e sicurezza essi attendono ogni giorno inutilmente, relegati però nei «campi», nella «emergenza» delle nostre società. Una domanda: visto il legame romano tra criminalità istituzionale e neofascismo, non sarà che questo ritorno in piazza delle bande nere corrisponda ad un progetto di nuova gestione emergenziale della tragedia Rom su cui lucrare, com’è già accaduto? Al contrario, il progetto d’integrazione abitativa e prima ancora la scolarizzazione dei bambini rom, dovrebbero appartenere ad un programma progressista di svolta in tutta Italia. A partire da Roma. E chi è rappresentante della Sinistra in Comune dovrebbe resocontare questo piuttosto che ergersi a interprete del popolo sovranista dell’odio.

Occorre anche una rivoluzione culturale. Pensate che effetto farebbe – proponeva Leonardo Piasere nel suo saggio L’antiziganismo, connesso all’antisemitismo – se mettessimo la parola «ebreo» al posto delle parole «zingaro» «rom» o «nomade», e per un popolo che ha subìto con il Porajimos, lo stesso massacro negli stessi campi di sterminio nazista della Shoah come Auschwitz. Che effetto farebbe dunque sentir parlare di «Piano ebrei», del «Centro raccolta ebrei» e del «Campo attrezzato per ebrei»?

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