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L’unica «ruspa» che ci piace

L’unica «ruspa» che ci piaceEmanuele «Ruspa» Della Rosa (a sinistra) durante un incontro con Nasser al Harbi – scattisportivi.com

Boxe Intervista al pugile romano Emanuele Della Rosa, che stasera difende il titolo italiano dei superwelter in un match spartiacque. «Se vinco non guadagno nulla, se perdo sono finito». Lo sport che cresce dal basso e il bisogno di una sfida così, dopo una vita a pane e pugni

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 27 giugno 2015

Quello che si disputerà questa sera nell’affascinante cornice di Mondofitness in Viale Tor di Quinto non è solo un match di pugilato, di per sé già carico di adrenalina e aspettative visto che in palio c’è la cintura italiana dei pesi superwelter. La sfida tra il campione in carica Emanuele Della Rosa (35 vittorie, 2 sconfitte) e lo sfidante pugliese Felice Moncelli (12-3-1) potrebbe essere uno spartiacque; o almeno questo pensa l’entourage del pugile romano. «Da questo match mi aspetto una vittoria chiara, netta. Se ciò non dovesse accadere dovremmo farci delle domande e capire cosa riserva il futuro a un pugile come Emanuele che ha quasi 40 incontri e 35 anni», ci dice Valerio Monti, da un anno maestro di Della Rosa dopo che le loro strade si erano già incrociate a partire dal 2009 quando faceva il “secondo” a Eugenio Agnuzzi, al tempo allenatore di Della Rosa. Parole crude dalle quali non trapela però nessuna paura, ma anzi la convinzione che un pugile del calibro di «Ruspa», come è soprannominato Della Rosa, che ha già combattuto per il titolo mondiale (2009) e quello europeo (2014), deve ancora avere l’obiettivo di incrociare i guantoni oltre i confini di casa.

Oggi a 35 anni difendi il titolo italiano. Se ti guardi alle spalle, te lo ricordi quel ragazzo che, con le mani sporche di farina, ha bussato alla palestra di Luciano Sordini a Fiumicino?

Me lo ricordo bene. A 14 anni, dopo la morte di mio padre, io e mio fratello ci siamo messi a lavorare per aiutare la famiglia a tirare avanti. Ho lasciato la scuola perché tutto sommato non ero poi così portato per lo studio; e ho iniziato a lavorare in un forno ad Acilia. Non era la vita migliore che si potesse immaginare per un adolescente. Attaccavo prima di mezzanotte, facevo turni da 13 ore, me ne andavo a casa a pranzo del giorno dopo. Tutti i santi giorni. Il venerdì, giorno di pane doppio, attaccavo alle 7 di sera. Lavoravo e dormivo, dormivo e lavoravo. Iniziai a pensare che meritavo qualcosa, che meritassi di regalarmi una gioia e una soddisfazione tutta per me, fosse anche solo un momento di svago e di scarico. A 17 anni ho messo piede per la prima volta in una palestra di pugilato, in un corso amatoriale. Conoscevo Luciano Sordini, sapevo chi era e la fama che lo precedeva. È bastato poco per innamorarmi di questo sport e decidere di combattere».

Quali sono le tappe principali di questa tua lunga carriera? Cosa annoveri, nel bene e nel male, come momento decisivo della tua crescita da professionista?

Della Rosa 2
Sicuramente il primo titolo conquistato, il 4 agosto 2006: titolo Internazionale IBF dei pesi welter, vinto a casa mia, a Fiumicino, da sfavorito, contro il francese Choukri Yentour. Avevo 8 match, ero agli inizi; lui ne aveva 13, imbattuto, un avversario a dir poco scomodo. Durante il 7° round mi sono fratturato la mano… ma non è bastato a fermarmi: ho continuato, ho stretto i denti e ho vinto un match dal sapore speciale. Iniziando a fare il professionista, infatti, non ho messo da parte il lavoro. Ho continuato a fare avanti e indietro tra Roma e Fiumicino: a 19 anni mi ero trasferito e avevo trovato lavoro in un forno a Tor Pignattara che adesso, dopo oltre 15 anni di lavoro, allenamenti e incontri, è diventato mio. Dal match contro Yentour, comunque, ogni match è diventato una tappa, un piccolo passo in avanti. Non sono mai stato un talento cristallino, non sono un predestinato, sono sempre andato avanti con determinazione e umiltà, restando con i piedi per terra e sudandomi almeno la soddisfazione di essere definito un pugile «solido».

Se Emanuele dovesse descrivere «Ruspa» Della Rosa quali tratti metterebbe in evidenza? Quali pregi e quali elementi caratterizzanti?

Della Rosa è un ragazzo che ha fatto sacrifici, è un persona che ha sempre stretto i denti: direi che la tenacia, sotto questo punto di vista, è la linea di continuità che unisce la mia vita dentro e fuori dal ring. Mi capita spesso di dire che sono proprio i sacrifici ad essere la chiave che apre la strada dei successi e delle soddisfazioni. E per questo aggiungo l’umiltà al fianco della tenacia.

A proposito di tenacia, è perché sul ring non molli un attimo che ti chiamano «Ruspa»?

Veramente il soprannome me lo diedero quando a 7 anni giocavo a calcio! Fu il mio primo allenatore, Roberto Polci, a coniarlo perché non mollavo mai neanche con la maglia del Fiumicino Calcio.

Veniamo al match con Moncelli: pensieri, aspirazioni, significati… Raccontaci cosa vuol dire per te, oltre la difesa del titolo.

È un match che mi dirà se ho ancora voglia di andare avanti, se sono stanco, se questa lunga carriera può ancora sposarsi con una vita sempre al limite. Da 3 anni ho cambiato i miei orari di lavoro, ma la sveglia suona comunque prima delle 5 e a casa c’è mio figlio che a breve avrà anche una sorellina. Ci sono sacrifici e responsabilità diverse, è tutto più duro; non a causa della famiglia, sia chiaro, anzi mi aiutano molto e mi danno la forza – ma per gli impegni e i carichi di lavoro che devono collimare con la testa e con l’età. Molti mi chiedono il perché di questo match: se vinco non guadagno nulla di rilevante, se perdo è finito Della Rosa. In parte è vero, ma io ho bisogno di una sfida del genere, difficile, per guardarmi allo specchio e leggere le prossime pagine della mia carriera.

Cosa pensi della palestra Revolution, dove ti alleni, nel cuore di Piscine di Torre Spaccata e del suo progetto di riqualificazione territoriale?

Della Rosa con il suo allenatore Valerio Monti
Della Rosa con il suo allenatore Valerio Monti

Mah, io sono una persona umile, sto bene tra la gente dei quartieri popolari. È lo specchio di quello che è sempre stata la mia vita. È stato il maestro Monti a scegliere questo spazio, sposando l’idea di un progetto sportivo popolare, che partisse dal basso. Io ho fiducia in lui e in questo progetto, è a lui soltanto che devo la possibilità di misurarmi in una dimensione del genere. Se domani decidesse di allenare dentro un bagno o uno sgabuzzino, lo seguirei senza esitazioni. In più sono amico di Lorenzo Catalano, un persona squisita e un ottimo allenatore: tutto lo staff mi ha fatto sentire da subito a casa mia e vorrei ripagarli continuando ad essere campione insieme a loro, vincendo questo match e puntando al titolo europeo contro Roberto Santos.

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