Madrid chiama Roma
Non solo è possibile, ma accade. E si ripete. La Grecia, il Portogallo, la Francia, ora la Spagna. In fondo crisi significa cambiamento. La lunga crisi e la esiziale scelta […]
Non solo è possibile, ma accade. E si ripete. La Grecia, il Portogallo, la Francia, ora la Spagna. In fondo crisi significa cambiamento. La lunga crisi e la esiziale scelta […]
Non solo è possibile, ma accade. E si ripete. La Grecia, il Portogallo, la Francia, ora la Spagna. In fondo crisi significa cambiamento. La lunga crisi e la esiziale scelta di curarla con l’austerità hanno cambiato la geografia sociale di questi paesi, e ora il responso delle urne restituisce, nel voto, la profondità del cambiamento politico. Vacillano i pilastri delle forze di governo e si rafforzano i nuovi raggruppamenti nati nel decennio horribilis: a sinistra come a destra.
Il brusco risveglio della Spagna, dopo la notte elettorale, ne è una chiarissima testimonianza. A poco è valso impostare una campagna elettorale sulla crescita del Pil del 3%, se poi le diseguaglianze addirittura crescono, se la disoccupazione giovanile è al 48% e se (con il Jobs act in salsa spagnola) la massa dei precari ormai lavora qualche ora per qualche giorno alla settimana. I due storici partiti che hanno diviso la responsabilità di governo, alternandosi al palazzo della Moncloa, vivono il punto più basso del loro consenso. E si dissanguano a vantaggio dei diretti concorrenti, a destra e a sinistra.
Il Pp di Rajoy perde 16 punti, il Psoe di Sanchez dimagrisce di 6, Podemos di Iglesias agguanta il 20 e Ciudadanos di Rivera il 14. Eccola la fotografia dopo un decennio di sforbiciate allo stato sociale e di corruzione galoppante. Podemos contro l’austerità, Ciudadanos in nome di una destra pulita, hanno incassato i dividendi.
La geografia del voto è molto articolata, la legge elettorale è penalizzante per formazioni come Izquierda unida, ma la sostanza è che da due le forze politiche principali sono diventate quattro. Un inedito per la giovane democrazia spagnola, un classico per il panorama dei partiti italiani. Come ha detto il vecchio socialista Gonzalez, premier negli anni ’80, «avremo un parlamento all’italiana ma senza italiani».
E dall’Italia, nei commenti della stampa e nelle prime reazioni politiche, se non un grido di dolore si legge un avviso di pericolo. Si parla di un’Europa malata di antipolitica, come se alle amare (e inutili) cure di Bruxelles non ci fosse alternativa. Come se di fronte alla devastante condizione in cui si ritrovano, gli elettori dovessero masochisticamente insistere a dare fiducia alla stessa classe dirigente. Come se o bipolarismo o caos. Quasi che parlare di legge elettorale proporzionale (Podemos) e di governi di coalizione equivalesse a evocare il diavolo. Dice Renzi: «La Spagna di oggi sembra l’Italia di ieri». E se invece la Spagna di oggi fosse l’Italia di domani? In fondo il Psoe prima di precipitare al 22 era al 28 per cento e secondo i sondaggi il Pd dal 36 è sceso attorno al 30, mentre il M5Stelle è salito dal 19 al 29. Sugli altri fronti, a sinistra del Pd e nel centrodestra, tutto è ancora in movimento. Ma, di fronte a uno scenario spagnolo, Renzi ha già preparato la camicia di forza dell’Italicum con l’abnorme premio di maggioranza a garanzia di mantenere in vita il defunto bipolarismo.
In ogni caso alle elezioni mancano, sulla carta, ancora due anni mentre il paese resta in forte affanno. Bce e Confindustria spengono i facili entusiasmi sulla ripresa, lo stesso ministro Padoan parla di una fase di «stagnazione secolare». E non è facile, nonostante la grancassa governativa e l’abuso in perfetto stile “berlusconiano” delle televisioni, manipolare la realtà. Grande è la confusione sotto il cielo d’Europa, magari la situazione non è eccellente, di sicuro la rendita di chi governa è finita.
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