Editoriale

Magistratura democratica, storia delle toghe rosse

Magistratura democratica, storia delle toghe rosse

Periodicamente, soprattutto in concomitanza con decisioni giudiziarie sgradite a questo o a quel centro di potere, si riapre il tormentone sulle «toghe rosse», indicate come responsabili di tutti (o quasi) […]

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 21 agosto 2013

Periodicamente, soprattutto in concomitanza con decisioni giudiziarie sgradite a questo o a quel centro di potere, si riapre il tormentone sulle «toghe rosse», indicate come responsabili di tutti (o quasi) i mali del paese. Non importa se le decisioni giudiziarie sono o meno fondate né chi le ha pronunciate. La responsabilità è, comunque, delle toghe rosse, la denuncia delle cui malefatte è diventata un classico in occasione dei processi a Berlusconi. Il Cavaliere, i suoi sodali e i suoi commensali si sono, ogni volta, scatenati. E i giornali di famiglia hanno dedicato a questo presunto scoop le prime pagine. Qualche chiarimento sulla storia delle toghe rosse e sul loro ruolo nella vicenda del Paese può essere opportuno ad evitare che – nel silenzio dei più – l’ossessiva ripetizione del falso lo trasformi, agli occhi di molti, in verità.
Chi sono, dunque, le toghe rosse? Essenzialmente – si dice – gli aderenti a Magistratura democratica, gruppo di magistrati nato a metà degli anni Sessanta contro quella che si definiva una «giustizia di classe». Nonostante la vulgata, assai diffusa, secondo cui i giudici erano austeri e universalmente stimati e la politica non entrava nei tribunali, quella di allora era una giustizia a tutela di una società chiusa e conservatrice, amministrata da una magistratura estremamente politicizzata (ancorché a senso unico), collocata culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere e avvertita come ostile dalle classi sociali subalterne.

Il paradosso è che quel ruolo – descritto in indimenticabili racconti di Italo Calvino e canzoni di Fabrizio De André – si ammantava del dogma della apoliticità di pubblici ministeri e giudici, pur se si trattava di una copertura di comodo, come ammise nel 1971 il procuratore generale di Torino Giovanni Colli, che in un’intervista a L’Espresso, disse tra l’altro: «Ah, vedo bene che lei ha capito, si è accorto che io sono un politico. E in effetti (…) alla fine Sofri in galera ce l’ho messo io. Perché vede, in realtà non si tratta mai di leggi ma di rapporti di forza».
Contro questa magistratura nacquero le toghe rosse, unendo alla critica dell’esistente una scelta di rottura, una collocazione dalla parte dei soggetti sottoprotetti per rendere possibile l’attuazione della Costituzione. Fu un’eresia, uno scandalo, non solo perché segnò la rottura della fedeltà burocratica propria di ogni corporazione, ma anche perché – come annotò Norberto Bobbio – «dove tutti sono liberisti, si può anche dire che essere liberisti significa non fare politica; ma dove i liberisti si scontrano quotidianamente con i non liberisti, è perfettamente naturale dire che fanno politica tutti e due».
Le toghe rosse nacquero, dunque in contrapposizione a una magistratura conservatrice e talora reazionaria il cui riferimento culturale era spesso il testo unico di pubblica sicurezza assai più della Costituzione e per la quale altrettanto frequentemente gli infortuni sul lavoro erano una «fatalità» (come ebbe a dire un procuratore generale della Cassazione in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario) e il potere assoluto della proprietà in fabbrica era ritenuto una sorte di legge naturale. E nacquero su una precisa opzione culturale di sinistra, assumendo come bandiera quell’articolo 3, capoverso, della Carta fondamentale che impegna «la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
È una collocazione pacifica e sempre rivendicata. Ma il dato più originale di quella scelta – spesso trascurato, per pigrizia e per interesse, dai commentatori – fu la mancanza di ogni progetto di sostituire la tradizionale egemonia della destra sulla magistratura con una egemonia della sinistra (o, addirittura, dei partiti di sinistra). La cosa sarebbe stata ben possibile e, all’apparenza, naturale, data l’esistenza, all’interno della magistratura, di ben altri collateralismi con il potere. Ma così non fu. La collocazione (dichiarata e trasparente) di Magistratura democratica nella cultura e nell’area progressista, lungi dal produrre fenomeni di subalternità o di fiancheggiamento, fu, all’opposto, stimolo per una più rigorosa autonomia, al punto che la storia del gruppo è stata, nel rapporto con le organizzazioni politiche della sinistra, storia di scontri assai più che di convergenze (dalla denuncia dell’infondatezza della pista anarchica per la strage di piazza Fontana alla promozione – nell’estate 1971 – di un referendum sui reati di opinione, dalla critica alla legislazione dell’emergenza alla rivendicazione di autonomia della giurisdizione rispetto alle strategie di unità nazionale e via elencando).
Gli obiettivi delle toghe rosse furono ben più ambiziosi e più profondamente innovativi: legati non a contingenti spostamenti dei rapporti di forza ma a un modo alternativo di concepire la magistratura e la giurisdizione nel sistema politico. E furono quelli di assicurare la reale indipendenza di tutti i giudici, di escludere filtri politici alla obbligatorietà dell’azione penale, di evitare contiguità con potentati di ogni genere (in attuazione del principio di soggezione esclusiva alla legge), di evidenziare il pluralismo interpretativo (e la necessità di scegliere le interpretazioni conformi alla Costituzione), di privilegiare la tutela dei beni costituzionalmente protetti, di aprirsi a un confronto con la società sui contenuti della giustizia e via seguitando. Il tutto nella convinzione – gravida di conseguenze – che non sono le singole decisioni ma è il ruolo della giurisdizione ad essere di sinistra o di destra, reazionario o progressista.
È questo, a ben guardare, che è intollerabile al potere: l’indipendenza e il pluralismo dei magistrati (che pure non sono certo fonte di decisioni a senso unico). V’è di ciò una prova documentale, riguardante il rapporto che molta parte della politica vorrebbe instaurare con i magistrati. Nel piano di rinascita democratica della loggia P2 (cui aderiva, con la tessera n. 1816, Silvio Berlusconi), rinvenuto nel 1981 nella disponibilità di Licio Gelli, sta scritto: «Per la Magistratura è da rilevare che esiste già una forza interna (la corrente di Magistratura indipendente della Associazione nazionale magistrati) che raggruppa oltre il 40 per cento dei magistrati italiani su posizioni moderate. È sufficiente stabilire un rapporto sul piano morale e programmatico ed elaborare un’intesa diretta a concreti aiuti materiali per poter contare su un prezioso strumento già operativo all’interno del corpo». Né si trattò solo di un obiettivo teorico, se è vero che il segretario nazionale di Magistratura indipendente dell’epoca, Domenico Pone, venne rimosso dalla magistratura, con sentenza 9 febbraio 1983 della sezione disciplinare del Consiglio superiore, per avere ottenuto una sorta di «finanziamento della stampa della corrente» tramite Licio Gelli e Bruno Tassan Din (allora direttore generale della Rizzoli). Ecco: le “toghe rosse” sono state il presidio contro una magistratura di quel genere. Mi auguro che continuino ad esserlo.

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