Editoriale

Mario Draghi, la «Grande bellezza»

Mario Draghi, la «Grande bellezza»I leader del G20 alla Fontana di Trevi, 31/10/2021 – AP Photo/Gregorio Borgia

G20 Tutto deve cambiare perché nulla cambi, dunque. E per favore non facciamoci incantare dai «risultati raggiunti» o dalle rappresentazioni del «genio Draghi» che prende 9 in pagella

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 2 novembre 2021

Scene da «Grande bellezza» al vertice G20 di Roma – per il leader pranzi, serate, tour tra le rovine eterne, monetina nella Fontana di Trevi: chissà che Sorrentino non abbia partecipato alla cabina di regia? Ma il regista è Draghi: santo subito. Alla fine tra i «risultati» del vertice, tanto fantasmagorico quanto pieno di fantasmi, sembra esserci l’immediato uso politico del suo «trionfo», motivato a reti unificate dai media «che contano» che lo candidano a presidente della repubblica.

Certo Mario Draghi, già presidente della Bce, garante dell’ordoliberismo finanziario ora rivisitato – dichiara – «in chiave sociale» è davvero un geniaccio: pensate, propone per le attuali crisi internazionali addirittura il multilateralismo. Ma che altro proporre se non la multilateralità di fronte a sfide come pandemia e clima che, per loro natura, richiamano una iniziativa della Terra intera?

La parola dal punto di vista storico-lessicale rimanda al periodo della guerra fredda, pre-1989. Eppure da quella data non solo il multilateralismo non c’è più ma siamo passati da un conflitto, spesso da una guerra, ad un altro. Com’è possibile allora che politicamente si rilanci questa parola d’ordine senza riflettere su quello che ha cancellato le possibilità reali di multilateralismo? Senza risposte a questo interrogativo, ogni soluzione è destinata a riprodurre il disastro del mondo nel quale viviamo.

A meno che non vogliamo chiamare multilateralismo l’approccio che l’Occidente ha avuto alla questione dei vaccini che, nell’incapacità di assumere l’unica decisione all’altezza della situazione – la sospensione della privatività dei brevetti – ha fatto incetta dei vaccini per sé – in prima fila gli Usa di Joe Biden – arrivando al tragico e insidioso risultato, anche per la lotta alla pandemia, di una copertura vaccinale al 70% nei paesi ad alto reddito contro il 3% dei paesi a basso e medio reddito. Oppure vogliamo chiamare scelta multilaterale quella degli Stati uniti di ritirarsi dall’oggi al domani dall’Afghanistan, una guerra inutile e sanguinosa dove Washington ha coinvolto per 20 anni gli ascari alleati della Nato, senza avvisarli, mentre rilanciava il nuovo patto transatlantico Aukus con i fedelissimi, Gran Bretagna e Australia, per nuove forniture militari tagliando fuori storici partner come la Francia?

Forse è multilaterale il Patto d’Abramo voluto da Trump, che cancella i diritti dei palestinesi e nel quale Biden rimane mani e piedi? O consideriamo multilaterale la strategia dell’Unione europea verso i migranti, esternalizzati a Paesi, come Libia e Turchia, che violano costantemente i diritti umani, relegandoli in un limbo criminale concentrazionario e incuranti delle stragi a mare e per terra che si susseguono ogni giorno? Per una Europa che, dopo la Brexit, ormai non riesce a gestire nemmeno la multilateralità al proprio interno – Polonia e Ungheria fanno il bello e il cattivo tempo e ascoltano più gli Usa che la Ue. Che non ha una politica estera ma la delega da sempre a quella Nato che, invece di sciogliersi dopo l’89, ha rinforzato le proprie fila con l’adesione di tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia – tranne Mosca – entrati aggressivi nell’Alleanza atlantica che intanto ha costruito a ridosso delle frontiere russe, di un’Unione sovietica che non esiste più, centinaia di basi militari, nuovi sistemi d’arma, dislocazione di truppe. E atomiche sparse qui e là.

Ora sarebbe necessario cambiare rotta per evitare che ogni crisi si trasformi in nuovo, devastante e dispendioso conflitto.

Dice Draghi a Glasgow che la crisi climatica «può esaurire le risorse naturali e aggravare le tensioni sociali. Può portare a nuovi flussi migratori… Il cambiamento climatico può dividerci»: qualcuno gli spieghi che è quello che succede da almeno un decennio. Invece del cambiare rotta accade esattamente il contrario, vengono rilanciati gli stessi rapporti di forza proprio grazie a questo «dolcevitoso» G20 romano. Per questo Biden, vero protagonista, si è precipitato nel ruolo di ricucitore di rapporti, sempre nell’ottica dei prioritari interessi americani. Pacca sulle spalle ad un incerto e irrequieto Macron: «Siete l’alleato più prezioso» con l’occhio alla potenza nucleare francese, e dichiarandosi pronto ad aiutare l’intervento militare di Parigi nel Sahel; ammiccamento con Draghi sulla Difesa europea che può convivere con la Nato – è il raddoppio delle spese militari e dei traffici di armamenti collegati e c’è già la promessa di Supermario di un «riarmo italiano»,altro che transizione ecologica; fine dei dazi Usa all’Europa su acciaio e alluminio – le aziende americane in ripresa ne hanno bisogno – ma a patto che non arrivino dall’Ue alluminio e acciaio made in China. Perfino l’infido Erdogan è tornato ad essere riconosciuto come «il nostro baluardo atlantico del quale non possiamo fare a meno».

In sostanza Biden è venuto a schierare i dubitosi partner atlantici contro il nuovo nemico. Al quale chissà come dobbiamo imporre dall’esterno, la riduzione secondo i nostri criteri – di noi che devastiamo la natura e le risorse da due secoli, dice Boris Johnson – delle sue emissioni nocive, dopo aver plaudito all’ingresso della Cina nel modello di produzione e commercio capitalistico a partire dagli anni Ottanta. Nei quali l’iper-sviluppo cinese ha rappresentato la salvezza per la crisi del mercato occidentale.

Ci si chiede: ma lo può fare una Cina sotto tiro delle nuove crisi che alimentiamo che producono solo scontro duro, come quella di Taiwan? Per la quale Xi Jinpig ha buon gioco a ricordare che, secondo i processi storici ineludibili sedimentati anche alle Nazioni unite, quella «è Cina a tutti gli effetti». E infatti siamo al punto che sia Cina che Russia si sono ormai costruiti i loro multilateralismi, come nella crisi afghana.

Tutto deve cambiare perché nulla cambi, dunque. E per favore non facciamoci incantare dai «risultati raggiunti»: la minimum tax sulle multinazionali ormai più potenti dei governi che per questo ben altra imposizione fiscale pretenderebbero e non una specie di estensione dei privilegi dei paradisi fiscali come rischia di apparire; e per clima e ambiente, il limite dei più 1,5 gradi di emissioni senza data, senza tempo né obbligo di applicazione. Un grande vuoto, come nella «Grande bellezza». Eppure al «genio Draghi» danno 9 in pagella. Supermario for president.

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