Melloblocco, viaggio nella valle dei massi erratici
Reportage Il Melloblocco in Val di Mello è il più grande raduno di «sassisti» d’Europa. Per quattro giorni ottomila ragazzi dormono in tenda, giocano. E si arrampicano ovunque. L’ultima edizione si è svolta dal 5 all’8 maggio scorso. Il manifesto era presente con l’inserto in movimento
Reportage Il Melloblocco in Val di Mello è il più grande raduno di «sassisti» d’Europa. Per quattro giorni ottomila ragazzi dormono in tenda, giocano. E si arrampicano ovunque. L’ultima edizione si è svolta dal 5 all’8 maggio scorso. Il manifesto era presente con l’inserto in movimento
«Alé uomo, tallona a sinistra, accoppia sullo svaso, alé, tienilo, dai man, l’hai chiuso, alé alé alé, credici uomo, credici!». Voci, anzi urla da Melloblocco, il più grande raduno del mondo di bouldering, l’arrampicata sui massi, che da tredici anni si svolge ogni primavera in Val Masino, storicamente la valle dei «sassisti» (vedi il manifesto in movimento di maggio, ndr).
Un’invasione pacifica, oltre 8mila persone, quasi tutte sotto i 25 anni, di cui 2.800 iscritte alla manifestazione, un terzo anche dall’estero. Sparse nella testata della valle e poi su in Val di Mello, con le spettacolari quinte delle pareti di granito e delle cime ancora innevate. Una valle chiusa, senza un passo transitabile in auto, non di passaggio, dove si va apposta per stare lì.
Il Melloblocco per 4 giorni all’anno, fuori stagione, sconvolge la tranquillità di un luogo poco avvezzo alle masse. Un’«invasione» che in molti altri contesti mal si concilierebbe con l’ambiente, che lascerebbe tracce indelebili.
Al Melloblocco no, perché chi ci viene ha un tasso di rispetto della natura molto più alto della media, perché la loro stessa passione vive e si alimenta di luoghi incontaminati.
Ci sono regole scritte e regole non scritte, dove sono le seconde, quelle forse più importanti, ad essere prima di tutto rispettate. Le prime, insieme a chi le ha create, scendono a compromessi: cartelli di divieto di sosta coperti per l’occasione da sacchi dell’immondizia, campeggio libero tollerato, vigili magnanimi e accondiscendenti. Ma non una carta per terra, un mozzicone di sigaretta, una prevaricazione nei confronti degli altri, nemmeno dei contadini che storcono il naso e giustamente recintano i loro terreni.
Certo l’impatto antropico si nota, è transitorio ma consistente, permea ogni anfratto, anche quegli angoli più reconditi della valle che senza un Melloblocco sarebbero per sempre rimasti solo flora e fauna. Perché il gioco è quello di scovare massi e tentare di salirli, possibilmente dalla via più difficile.
Niente corda, solo scarpette e magnesite, la polvere bianca che asciuga il sudore e aiuta a fare presa sulla roccia. Altezze ridotte ma da non sottovalutare, e alla base i crash-pad, materassoni di materiale speciale per ammortizzare le cadute. Alla base, soprattutto, i compagni di gioco, con le braccia protese verso l’alto, pronti a «parare» gli amici, a volte a immolarsi come veri e propri cuscini umani.
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Per la maggior parte dei sassisti è un gioco ma per un ridotto gruppo di fortissimi, di pro, il Melloblocco è una vera e propria gara, con montepremi e titoli dei media specializzati. Per loro i passaggi sono davvero estremi, alcuni forse impossibili, schedati in un elenco e in una precisa planimetria. Chi riesce a «chiuderne» di più arrivando in cima al sasso vince.
Come si chiama questa roba qui? È ancora alpinismo? Me lo domando mentre per la prima volta assisto al Melloblocco, mentre osservo, fotografo, ascolto. Certamente hanno in comune la dimensione verticale, il salire, la forza di gravità che ti tira giù.
Hanno in comune il tipo di movimento, la coordinazione corporea, l’intelligenza motoria, la forza. Sono agli antipodi, ma dal sassismo agli ottomila ci si muove in un continuum fatto di sfumature, di parametri che pendono di qua e di là.
Dal brevissimo sforzo esplosivo a quello continuo e diluito in ore e giornate di ascesa, passando per l’arrampicata in parete. Dall’ambiente amico e rilassante, a quello ostile alla stessa sopravvivenza. Insomma, pare non esserci soluzione di continuità, e nemmeno un confine facilmente individuabile e posizionabile.
Tirare le prese allo spasimo, concentrarsi su millimetriche sequenze di movimenti, raccogliere ogni stilla di energia fisica e psichica aiuta certamente a elevare il proprio livello tecnico e la propria consapevolezza sulle grandi pareti.
Così come le grandi pareti danno continuità al movimento, allenamento generale, autocoscienza, capacità di valutazione e gestione del rischio.
Ancora però non mi spiego come si possano passare giornate intere a tentare un passaggio di pochi metri, a volte centimetri, consumandosi la pelle dei polpastrelli, per poi magari uscirne definitivamente sconfitti. Non mi spiego come questa possa essere una scelta deliberata, proprio qui in Val Masino, con questo ben di dio alpinistico tutto intorno.
Continuo a osservare e ascoltare e finalmente mi pare di capire.
E’ la dimensione sociale, ecco cos’è. L’alpinismo, se non è solitario, è fatto di cordate, di due o massimo tre persone. Gli altri, quando ci sono, sono per lo più una diminutio, un ostacolo, generano spesso attriti e incomprensioni.
Esistono ovviamente le eccezioni, ma qui al Melloblocco la socialità è invece la regola, il gruppo un ingrediente di base. Si scala tutti insieme, a turno, ci si aiuta a vicenda, gli stessi pro, in competizione tra loro, si scambiano consigli. Ci si guarda, ci si mostra, ci si «selfizza». Insomma, si condivide.
Poi, scheggia impazzita e insieme trait d’union arriva lui, Charles.
Lo vedo sbucare dal sentiero poco sotto di me. Giovane, capelli lunghi, viso vagamente orientale, abiti che sfuggono a qualunque definizione, no logo, borsa a tracolla mal riempita e, soprattutto, ciabatte infradito.
Non lo conosco ma capisco al volo che uno così, così fuori contesto, o ha problemi psichiatrici o è uno fortissimo. Lo capiscono probabilmente anche i climber impegnati sui massi tutt’intorno, ma la coda dell’occhio è il massimo che in queste situazioni è convenzione concedere.
Charles si accomoda scomodamente in posizione vagamente yoga, si guarda in giro, volge il capo lentamente.
Per quasi un’ora, in rigoroso silenzio, alterna strani esercizi con stati di apparente assenza. Poi si avvicina a un masso denso di climber ansimanti e dai movimenti infruttuosi. Chiede timidamente il permesso, si toglie le ciabatte e con fluidità risolve il passaggio, per gli altri solo agognato. A piedi nudi.
È a questo punto che quella che era solo una supposizione diviene certezza: Charles è lì per provare Lycans, uno dei boulder più difficili, che nessuno ha ancora risolto. Gli gironzola intorno, osserva, poi dà inizio a quella che capirò essere una sequenza di gesti rituali. Si lega i capelli con uno straccetto bianco, si pulisce i piedi su un micro-zerbino ritagliato da quello di Ikea, li spalma di magnesite e, lentamente, si avvicina al sasso strapiombante.
Ad assisterlo un ragazzone che era sbucato dal sentiero con lui, ma non avendo i due proferito parola o interagito tra loro, capisco solo ora essere suo amico. È l’inizio di una lunga sequenza di tentativi, Charles si alza ogni volta di più, segno di grande concentrazione, di ottimizzazione dei gesti. Senza parole, e suo malgrado, entra anche lui nella dimensione sociale del Melloblocco.
Le code degli occhi diventano sguardi fissi, «alé» di incoraggiamento, braccia allungate per proteggerlo, crash-pad che si moltiplicano sotto di lui a dar manforte al suo, che è poco più di un cuscinetto da spiaggia. Cinque, sei tentativi, la speranza di tutti, Charles sale alto ma non ce la fa. Ci provano altri due, ma non si staccano neanche da terra.
Me ne vado, qui si dice «non aver più pelle» e Charles, oltre a quella dei polpastrelli non ha più neanche quella delle dita dei piedi.
Domani è un nuovo giorno.
La storia di Charles Albert
Nel frattempo raccolgo informazioni: Charles Albert, francese di Fontainebleau, non a caso famosa per la grande foresta piena di massi da scalare, 18 anni. In carriera ha già chiuso un boulder di 8c, il massimo della difficoltà, naturalmente a piedi nudi. Mi spiace un po’ non avergli parlato, ma il destino me lo fa incontrare di nuovo il giorno seguente. E non me lo lascio sfuggire.
Charles, oggi non arrampichi?
No, mi riposo, assisto il mio amico. Sono arrivato qui solo con due piccole borse e il sacco a pelo, lui è stato gentile e mi ha ospitato nella sua tenda. E’ bulgaro, siamo diventati amici.
A che età hai cominciato a scalare?
Non mi ricordo, era tanto tempo fa.
Come mai a piedi nudi?
Ho cominciato con le scarpe, poi un giorno le ho dimenticate e ho provato senza. Mi piace di più, è più tecnico, ma ci sono anche dei vantaggi, ad esempio questo… (piega l’alluce e uncina un piccolo appiglio). Solo che non mi posso allenare tanto perché nelle palestre non si può scalare a piedi nudi. Lo stesso per le gare di arrampicata. Mi rimane il bouldering.
E se ti dico alpinismo, grandi pareti, Himalaya cosa rispondi?
Non ho idea. Arrampico sui massi perché a casa mia ci sono solo quelli. Però in generale mi piacciono le cose semplici e il bouldering è il tipo di arrampicata più semplice in assoluto. Non ho grande dimestichezza con le corde e l’attrezzatura. In futuro si vedrà.
Reinhold Messner ti dice qualcosa?
Mah, vagamente… credo che qualcuno mi abbia parlato di lui, ma non ho ascoltato tanto.
Ti piacerebbe diventare famoso?
Solo quel tanto che basta per vivere di arrampicata. Di più non mi interessa.
Quindi avresti bisogno di sponsor.
Sì, ma nel bouldering gli sponsor principali sono per le scarpe e io mi sono fregato da solo.
Ho visto che sei un tipo molto riflessivo, serafico, che ti muovi lentamente.
Non mi piacciono le cose veloci. Prima di arrampicare ho bisogno di sentirmi leggero, devo scaricare il peso che ho dentro.
Cosa mi dici di questo fenomeno del bouldering di massa, di tutta questa gente attorno?
Che preferirei essere da solo.
Una curiosità, per i piedi fai qualcosa di specifico (nel senso di allenamento, ndr)?
Ogni tanto me li lavo.
Le atlete professioniste a Melloblocco – da 8a.nu
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