Editoriale

Mibact, la riforma «immateriale»

Mibact, la riforma «immateriale»Il sito di Pompei

Patrimonio La bozza della nuova identità del ministero per i beni, le attività culturali e il turismo accorpa arte e architettura contemporanee in una super direzione, cancella la parola archeologia e tenta lo sganciamento dei musei star dalla rete territoriale

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 7 febbraio 2014

Non è certo facile riformare un ministero come quello del Mibact (leggi Beni, Attività Culturali e Turismo), soprattutto in tempi di magra, in cui si è costretti a fare i conti della serva e a guardare più alla spending review che a un progetto di ampio respiro, magari filosofico, che dia il giusto peso alle istanze della Costituzione e a quelle della realtà presente. Così, la bozza di riforma che è uscita dalle stanze del dicastero ha una visione che scricchiola. Manca, infatti, di una ossatura centrale, un’idea culturale che regga quell’impalcatura a rischio di collasso. E il risultato di tanto lavoro potrebbe essere l’ennesima occasione mancata. Bray, già con la carica decisa d’imperio a Pompei e i vari sganciamenti che promette in nome di una governance di altro segno, sta andando da tempo in una direzione: allentare la corda che tiene unito il patrimonio, far entrare le università dalla porta principale nel mondo dei beni culturali, alleggerire gli uffici dei suoi «tecnici», distribuire competenze esterne.

La «bozza» identitaria del nuovo ministero, nata con l’intenzione di snellire la macchina burocratica, soprattutto le sovrapposizioni fra direzioni generali e soprintendenze, non compie la sua missione. Accorpa sì dove può (Abruzzo e Molise, Liguria e Piemonte, Basilicata e Calabria), risparmia in stipendi e sedi, ma poi torna a far proliferare le direzioni centrali. Doveva rafforzare l’autonomia alle soprintendenze e invece non fa tesoro di un’indicazione così importante.

Non sappiamo se dalla Commissione di esperti sia uscito proprio questo progetto o se sia frutto di contrattazioni, però somiglia a un pasticcio.
A uscirne assai male sono l’arte e l’architettura contemporanee e poi l’archeologia. Le prime due sono precipitate nel buco nero di una super direzione, accomunate allo spettacolo e ai beni immateriali. Una sagra val bene un Burri. Soprattutto, si apre una voragine nella tutela, «cappello» dentro cui si poteva fin qui adagiare qualsiasi opera contemporanea si manifestasse sul territorio «storico» (ovunque in Italia). L’immateriale, invece, non ha più rete di protezione. E l’archeologia? È scomparsa, anche come parola significante, tra le direzioni generali. Al suo posto, c’è un generico «patrimonio storico-artistico». Una scelta che non è piaciuta agli archeologi che hanno protestato contro la mortificazione ingiustificata: «Bray e la dirigenza Mibact sembrano aver deciso di delineare un ministero a proprio personale ed esclusivo piacimento, ignorando qualunque forma di democratico confronto».
Altro punto dolente: il procedimento di verifica e di vincolo del patrimonio artistico e monumentale si separa dalla valutazione dell’interesse paesaggistico, con decisori diversi, annullando la nozione – tutta italiana – di contesto storico. Conseguenza, un’operatività impossibile e un indebolimento della tutela. Speriamo di sbagliare analisi. Grave anche, inseguendo un falso concetto di valorizzazione, l’uscita di alcuni musei-star dai «poli» che li mettono in relazione con altre istituzioni. Verranno gestiti a parte, non saranno più un traino. Se si farà cassa con gli Uffizi, è probabile che si dovrà chiudere il museo di san Marco del Beato Angelico, perché da solo quest’ultimo non regge. Si interrompe un patto di sussidiarietà, lo stesso che ha assicurato fin qui la capillarità del patrimonio sul territorio. Patrimonio diffuso. Diffusissimo, ma non con il medesimo appeal mediatico.

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