Il commento della settimana Marco Boccitto | Sulle disgrazie dell’Africa post-coloniale al tempo della Guerra fredda, la vox populi del continente amaramente concludeva che non c’era molto da fare, «quando due elefanti combattono, l’erba sottostante soffre». Ora che il numero degli elefanti si è moltiplicato a dismisura e la lotta per accaparrarsi più territori d’influenza si è fatta se possibile più spasmodica, la condizione di chi sta sotto – la stragrande maggioranza delle giovani popolazioni africane – non è cambiata, se non in termini di “connessione” con il resto del mondo. E questa sensazione di calpestìo che si rinnova, la percezione del perdurante maleficio costituito dalle enormi ricchezze minerarie di cui l’Africa dispone e di cui pochissimi beneficiano, ad alimentare il consenso locale per ciò che meccanicamente definiamo colpi di stato.
Come se lo strumento elettorale imposto dai canoni della democrazia occidentale fosse di per sé portatore di civiltà politica a ogni latitudine, anziché un modo “pulito” e presentabile di consumare golpe istituzionali che con la volontà popolare hanno poco a che vedere.
Ma tant’è. In Niger il presidente Mohamed Bazoum che oggi in molti pretendono di rivedere al suo posto di comando insieme all’ordine costituzionale, non è estraneo a questi meccanismi subdoli di conquista del potere. Ma la sua immunità deriva dal fatto di essere amico affidabile e garante degli interessi delle potenze occidentali, in un Paese sempre più strategico per i traffici e le inquietudini che lo attraversano da sud a nord. E, d’altro canto, i vertici militari che hanno di fatto destituito Bazoum hanno ricevuto la loro “educazione sentimentale” in Francia e negli Stati uniti, salvo poi beneficiare a domicilio dei servizi di addestramento portati dall’Italia, da ultimo con la missione bilaterale “Misin”.
Può e deve far sorridere oggi il titolo «Italia, Niger, Europa, Africa. Due Continenti. Un Unico Destino» scelto per il convegno organizzato quest’anno alla Luiss dalla fondazione Med-Or, sorta di braccio culturale e imprenditoriale di Leonardo, a guida Marco Minniti che dell’esternalizzazione delle frontiere e dei sistemi di sicurezza è stato un profeta fin troppo ascoltato a destra.
Oltre a insistere sugli aiuti economici condizionati, come quelli che si cerca di apparecchiare oggi per la Tunisia sull’orlo della bancarotta, si è deciso così di tagliare la cooperazione sana e di puntare su quella militare, al solo scopo – rilanciato senza infingimenti dal cosiddetto Processo di Roma – di arginare i flussi migratori diretti in Europa e poi, se rimane tempo, mettere in riga gli eserciti jihadisti che infestano la regione. Ma nel Sahel si è deciso che enough is enough, che è giunta l’ora di voltare pagina. Con buona pace dei risibili propositi “non predatori” del governo italiano in astinenza da gas russo, che propaganda il suo “Piano Mattei” come panacea mentre ai tabù sulla parola fascismo aggiunge clamorose amnesie sui trascorsi coloniali dell’Italia. E anche le promesse di rapporti paritari con gli stati africani formulate dalla Francia di Macron, si direbbe che non hanno fatto minimamente breccia.
Ora, anche il più umile abitante del più sperduto villaggio dell’Africa sa che non è consigliabile consegnare le tue armi a chi un giorno potrebbe puntartele contro. Si tratti di utilizzare i mercenari di Prigozhin per conquistare Bakhmut o di combattere il jihadismo e i flussi migratori nel Sahel migliorando le capacità degli eserciti locali, i rischi sono evidenti ed evidentemente sottovalutati dal committente. Anche il plauso convinto di Europa e Usa alla Comunità economica degli stati dell’Africa Occidentale (Cedeao), che stavolta oltre ad abbaiare – come nei precedenti colpi di mano in Mali, Burkina Faso e Guinea – vuole dimostrare di saper mordere, rispondono alla stessa logica. Non bastava il Ruanda, pronto a ricevere a pagamento i migranti che il Regno unito e Israele non vogliono e a fare il poliziotto internazionale nelle crisi africane, come nel nord del Mozambico, a protezione degli interessi estrattivisti dell’Occidente.
L’elefante sovietico nel frattempo si è tramutato in orso neo-zarista e Vladimir Putin, forte di una verginità coloniale russa in Africa, può atteggiarsi a moderno castigatore del neo-imperialismo occidentale. Peraltro ora regala anche bastimenti di grano, com’è buono lui. Ma le recenti stragi di civili nel nord del Mali ad opera dell’esercito di Bamako e dei wagneriani che hanno preso il posto delle truppe francesi, o il clima di terrore instaurato dai mercenari russi nella Repubblica centrafricana, testimoniano quanto illusoria e pericolosa possa rivelarsi anche questa prospettiva.
Un destino diverso per l’Africa e il Sahel passa necessariamente per un autocontrollo delle risorse e una ridistribuzione vera della ricchezza, oltre a investimenti che mettano a reddito la potenza demografica del continente e un sostegno fattivo a società civili che sono maturate in fretta e altrettanto sbrigativamente sono state abbandonate – si veda quando sta succedendo in Sudan – agli umori funesti di élite politiche e militari da sempre funzionali alle politiche dell’aiutarci a casa loro. |