Editoriale

Non basta contare i morti e sperare

Non basta  contare i morti  e sperare

Israele/Palestina Ma c’è anche un’altra novità: la «maturazione» della legge discriminatoria sulla nazionalità esplode con le proteste nelle città miste d’Israele - con forte presenza arabo-palestinese - come Lod, Aco e Ramble, dove mentre scriviamo sono in corso pesanti scontri

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 13 maggio 2021

Nelle ultime ore è diventato tragicamente chiaro che il governo israeliano e Hamas, per ora, non sono interessati alla mediazione di attori internazionali per arrivare a una tregua.

Dopo anni di silenzio rispetto a un conflitto che sembrava dimenticato, tutti si sono svegliati e ammoniscono – adesso se ne accorgono! – che l’occupazione non è una routine accettabile e nasconde contenuti esplosivi. Fattori a lungo occultati o dimenticati sono esplosi ancora una volta, e nuovamente il prezzo da pagare sarà il sangue di entrambi i popoli.
Stati uniti post-Trump – quelli di Joe Biden – , Unione eurropea, Israele e paesi arabi: tutti si dichiarano «sorpresi». Fra gli israeliani serpeggia la domanda: «Ma come hanno potuto dirci che Hamas non era interessato allo scontro armato?».

La verità è che tanto Netanyahu quanto i leader di Hamas – che aspettavano l’arrivo di altri dollari dal Qatar – proseguivano su una linea che non portava da nessuna parte ma assicurava uno statu quo relativamente vantaggioso. C’erano stati diversi incidenti violenti, durati un giorno o poco più, con un successivo cessate il fuoco mediato dall’Egitto, dal Qatar e dall’inviato delle Nazioni unite.

Ma stavolta, che cosa è accaduto? C’è stata una convergenza di elementi: Israele porta avanti un’occupazione dura e violenta finalizzata a ridurre la presenza palestinese nei territori occupati nel 1967, espropria le terre dei palestinesi, favorisce gli insediamenti dei coloni. Adesso, l’opinione pubblica in Israele è sotto shock. Lunedì Hamas ha lanciato razzi verso Gerusalemme e martedì centinaia di razzi hanno raggiunto un punto nevralgico, sorprendente: Tel Aviv e la regione centrale del paese, tanto che è stato chiuso lo stesso aeroporto internazionale.

Ma c’è anche un’altra novità: la «maturazione» della legge discriminatoria sulla nazionalità esplode con le proteste nelle città miste d’Israele – con forte presenza arabo-palestinese – come Lod, Aco e Ramble, dove mentre scriviamo sono in corso pesanti scontri.

La pericolosa escalation israeliana è durata quasi un mese. Il premier Netanyahu sta probabilmente arrivando alla fine del suo lungo potere e cerca di fare qualunque cosa per impedire la formazione di una coalizione alternativa. È passato dall’incitamento violento e razzista contro gli arabi palestinesi, cittadini di Israele, al flirt che ha indotto la fazione islamista a uscire dalla “Lista unita araba” in nome di un «pragmatismo effettivo», scontratosi poi con la forte opposizione del partito religioso razzista-estremista che lo stesso Netanyahu ha spinto a formare.

Il premier, non di rado poco propenso ad avventurarsi in guerre non del tutto controllabili, si è fatto trascinare da un ministro della polizia e proprio nel delicato periodo del Ramadan si sono verificate violenze mentre manifestanti e un deputato ebreo della “Lista unita araba” protestavano contro le espropriazioni di case palestinesi a Sheikh Jarrah; addirittura la polizia ha fatto irruzione violentemente nella mosche ad al-Aqsa, molto importante e grave per i palestinesi, per la Giordania e per tutto il mondo islamico.

Il premier ha frenato all’ultimo momento la marcia ultranazionalista che tutti gli anni, invariabilmente, ha portato a provocazioni e attacchi razzisti contro i palestinesi nella Città vecchia. Ma era troppo tardi. Hamas ha cavalcato l’eccitazione delle ultime settimane. Ergendosi a difensore di Gerusalemme e di al-Aqsa, ha pensato di poter vincere la contesa elettorale che Abu Mazen si è visto obbligato a cancellare per non uscirne sconfitto. Hamas lancia un ultimatum che Israele non può accettare ed ecco che, con puntualità svizzera, alle 18 cadono i razzi intorno a Gerusalemme.

Un enorme trionfo politico per gli islamisti, visti attualmente come la risposta concreta all’occupazione, e difensori dei luoghi sacri dell’islam.

La risposta era inevitabile, ma la reazione di Hamas e della jihad islamica acquisisce una proporzione e una dimensione sorprendenti. Sarebbero già stati lanciati oltre 800 razzi, i morti israeliani sono finora sei o sette, e l’effetto politico del massiccio attacco di ieri è enorme. Come era prevedibile, la furia e la frustrazione dell’élite israeliana si traduce in attacchi aerei violenti: le vittime palestinesi sarebbero già cinquantasei a Gaza, oltre alla solita distruzione di case e uffici, e altri tre nei Territori occupati.

I palestinesi iniziano a sentire gli effetti dell’attacco e parrebbero interessati a un’opera di mediazione, ma in Israele la posizione è diversa. Non solo quella di Netanyahu, che pensa di sfruttare questi giorni per distruggere la possibile alleanza dell’opposizione in nome del «patriottismo e unità nazionale in quest’ora tragica… eccetera…eccetera»; ma anche quella di una leadership militare israeliana ansiosa di salvare la propria reputazione, indebolita dalla «sorpresa» e dall’offensiva palestinese.

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