Editoriale

Obama ascolta tutti, tranne i palestinesi

Nello storico discorso del Cairo del 4 giugno 2009, il presidente statunitense Barack Obama ancora al suo primo mandato dichiarava addirittura di “sentire come un lamento il dolore dei palestinesi” […]

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 14 agosto 2013

Nello storico discorso del Cairo del 4 giugno 2009, il presidente statunitense Barack Obama ancora al suo primo mandato dichiarava addirittura di “sentire come un lamento il dolore dei palestinesi” privati del proprio diritto ad avere una patria. Passati solo quattro anni e al suo secondo mandato Obama, nonostante abbia ingigantito le sue orecchie più o meno segrete per “ascoltare” il mondo – come mostra la vicenda Snowden – resta sordo ad ogni diritto e protesta palestinese e avvia una tornata di finti colloqui “di pace” accettando e subendo subito ogni ricatto del governo israeliano. Che, proprio ai passaggi dell’inviato Usa, non uno qualsiasi ma il nuovo segretario di Stato John Kerry, risponde con il rilancio della politica degli insediamenti.

Nuove colonie che, rafforzando la pretesa sulla Palestina della destra isrealiana al governo, ancora convinta della prospettiva della Grande Israele, e quella degli integralisti religiosi ebraici, intanto cancellano il diritto allo Stato palestinese. Ogni colonia, come il Muro di Sharon, sottrae infatti terra araba e determina un nuovo presidio militare, una nuova occupazione. Basta vedere su una cartina l’alveare di insediamenti per capire come la possibilità oggettiva di uno Stato palestinese basato almeno sulla continuità territoriale sia venuta meno ormai da molto tempo. Con le speranze e le aspettative dei palestinesi. Verso una deriva di senso e una devastazione, anche lì, della politica.

Eppure un allarme c’è stato, quando nel giugno del 2006 il movimento islamico Hamas vinse le elezioni non solo nella Striscia di Gaza ma anche in tutti i territori occupati della Cisgiordania. Fu uno sconvolgimento, provocato da accordi storici di pace mai realizzati e disattesi, da stragi di civili rimaste impunite, da promesse mancate sugli insediamenti da fermare. In cambio delle quali gli Stati uniti e l’Unione europea elargirono alla leadership della laica Al Fatah altrettante promesse, ipercontrollo d’intelligence e un mare di denaro per comprarsi il conflitto latente. Arafat era morto nel 2004, ora sappiamo probabilmente assassinato, e insieme umiliato nella sua Muqata assediata dai carri armati israeliani e il leader naturalmente alternativo, quanto a consapevolezza e radicalità, Marwan Barghouti, era ed è “al sicuro” nelle prigioni d’Israele. Eppure non solo non arrivò la pace e lo Stato di Palestina ma, in tre anni, ben altre due sanguinose guerre d’aggressione israeliane.

Ora, sulla pelle dei palestinesi, la soap opera infernale sembra ricominciare, proprio mentre l’intero Medio Oriente è in fiamme e rappresenta ormai il territorio dello smacco, della sconfitta della politica internazionale di Barack Obama. Solo in questi giorni stanno riaprendo infatti alcuni dei 28, tra ambasciate e consolati mediorientali, chiusi per il “timore di attacchi terroristi”. E’ una chiusura che di fatto riconosce l’abdicazione della diplomazia. Perché, nonostante le attese mondiali, anche con la presidenza Obama gli Stati uniti mostrano di non avere una strategia mediorientale ma solo una pratica di potenza, con dispiego di violenza e forza militare.

Così tutti si preoccupano dell’attacco del terrorismo islamico, dopo aver accreditato col timbro dalle centrali americane d’intelligence questo o quel messaggio e intercettazione di Al Qaeda, viva e vegeta anche dopo l’uccisione di Osama bin Laden. Ma non si arresta la campagna terrorista dei droni statunitensi che dallo Yemen all’Afghanistan, fino al Pakistan, per colpire un solo militante jihadista, uccidono decine e decine di civili, coraggiosamente dall’alto dei cieli senza rischiare un solo pilota o marine. Il campo di concentramento di Guantanamo resta aperto e lì si consuma una pagina vergognosa per un Paese e un Presidente che straparlano di diritti umani.

Il Cairo brucia, sospeso tra l’indecisione dell’esercito golpista – sostenuto dal Pentagono nelle stesse ore in cui il Dipartimento di Stato Usa appoggiava l’ormai deposto presidente Morsi – al massacro finale contro le piazze affollate dei Fratelli musulmani che protestano. La Siria è in fiamme grazie anche agli “Amici della Siria”, compagine criminale che ha rifornito con milioni di dollari gli insorti di tutte le fazioni, per accorgersi alla fine che armava Al Qaeda. Compagine alla quale partecipa anche l’Italia con Usa, Gran Bretagna, Turchia, insieme alle ricche petromonarchie del Qatar e dell’Arabia saudita.

Di Libia non si parla più, ma l’11 settembre del 2012 difficilmente sarà dimenticato dalla Casa bianca. Quella nemesi che vide assassinare l’ambasciatore americano Chris Stevens dagli integralisti islamici che prima – nella guerra “umanitaria” della Nato – lui stesso come “inviato” aveva coordinato contro Gheddafi.

Torna ad incendiarsi l’Iraq, lì dove l’intervento armato occidentale ha avuto bisogno di riattizzare la rivalità e l’odio latenti tra sciiti e sunniti, che ora riesplode in tutta la regione. L’Afghanistan resta in guerra, e nel 2014 rimarranno tante belle basi e zone rosse, con la promessa del ritiro dei marine grazie alla surroga degli alleati Italia – la nuova portaerei del Mediterraneo, secondo il bellicoso ministro della difesa Mauro – e Germania che resteranno in guerra senza che i rispettivi parlamenti abbiano deciso alcunché.

E’ da questa litania di luoghi della guerra da noi attivata e sostenuta, Iraq, Afghanistan, Egitto (erano tutti egiziani i giovani annegati sulla spiaggia di Catania), Siria, Libia, è da questi territori della miseria da noi condizionata come per la grande, poverissima e ricchissima Africa del Sahel e dell’interno, che arrivano i disperati, i paria di questa nuova “lotta di classe” che viaggia sulle carrette di mare. Dovremmo chiudere le basi militari atlantiche per aprirvi, in alternativa, ostelli ospitali; invece, pur essendo direttamente responsabili di questa tragedia, non siamo disposti nemmeno a pagare il pegno di una dignitosa accoglienza.

Ma è Ferragosto, l’attacco del nemico a nuove torri gemelle finora non c’è stato, e negli Stati uniti distratti infuria la polemica sul trasporto “di Stato” del cane presidenziale. Una sola certezza: Obama e il Medio Oriente? Ne avesse indovinata una.

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