Editoriale

Occhio alla Troika

Europa/Italia Grecia e Spagna non sono uscite dalla crisi

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 21 agosto 2014

Incomincia a farsi strada sulla stampa italiana un sillogismo bislacco, cui si può applicare quello che Keynes diceva di Hayek, e cioè come partendo da premesse assurde si giunga a conclusioni da manicomio. La premessa sarebbe che Grecia e Spagna sono in ripresa perché hanno fatto le mitiche ‘riforme’. L’Italia, invece, è in difficoltà perché non le ha fatte, anzi non ne è in grado. Quindi bisognerà che arrivi la trojka per farle; parola di De Bortoli e Scalfari.

Ma, dice Scalfari, questa volta la troika sarà clemente e non farà macelleria come in Grecia e Spagna. La conclusione è insensata, come vedremo, ma andiamo con ordine e incominciamo dalla premessa chiedendosi: Spagna e Grecia sono davvero in ripresa? E semmai, dipende dall’aver fatto le riforme?
La premessa è bislacca anzitutto per l’autore. Alberto Alesina, autore della teoria dell’«austerità espansiva» accolta in pompa magna dall’Ecofin nel 2010, sbeffeggiata dal Fmi nel 2012. Giustamente, visti i risultati, dal 2011 al 2013, di un’austerità senza espansione e con tanta recessione. La premessa è inoltre bislacca di fatto.
La Grecia ha sperimentato una caduta di reddito e occupazione intorno al 25%. Cifre pari solo a quelle degli Usa post ’29. Con una caduta dei salari intorno al 30%. L’edilizia ha ripreso poco, e le famiglie greche restano indebitate. La bilancia commerciale resta in passivo, cioè le importazioni sono maggiori delle esportazioni; anche se la loro differenza si è ridotta di un terzo. Il miglioramento, però, è dovuto soprattutto alla caduta delle importazioni di beni. Un aumento del 5% dell’export di beni a fronte di una caduta dei salari del 30% non è certo un successo; piuttosto un fallimento.
La Spagna non è molto diversa. La differenza cruciale della Spagna è che la caduta dell’occupazione è pari a quella greca, mentre quella del reddito è inferiore a quella italiana; cioè meno del 10%. La ragione della caduta dell’occupazione sta nella legislazione pre-crisi che facilitava i licenziamenti. Poi ci sono state altre riforme; i salari aziendali sono di regola inferiori agli accordi nazionali, e i licenziamenti sono stati accelerati. Il risultato è che la caduta del reddito ha pesato soprattutto sui redditi medio-bassi. Di conseguenza, anche in Spagna, dove il boom edilizio era stato molto forte, le famiglie non si sono liberate dei debiti, come in Grecia. E anche in Spagna la situazione della bilancia commerciale è migliorata soprattutto per la caduta delle importazioni. Ma, nonostante la notevole caduta dei salari e dei prezzi, il turismo è aumentato solo di poco, così come di poco è cresciuto l’export di beni.
La conclusione è che sia l’economia greca che quella spagnola semplicemente hanno smesso di cadere. Cosa che capita a tutte le economie dopo un crollo così imponente (per la Spagna soprattutto in termini di occupazione e prezzi). Non è iniziata una vera ripresa. Le riforme, la riduzione del welfare e dei salari, hanno inciso in misura modestissima sulle modeste riprese. Mentre sono state un fattore cruciale del crollo del reddito, dell’occupazione e del tenore di vita. Quel po’ di ripresa che c’è, è del tutto sproporzionata rispetto alla riduzione dei salari e del tenore di vita delle popolazioni, ed è dovuta più alla ripresa mondiale che alle riforme. Un fallimento. Altro che successo. La premessa è insostenibile e assurda.
Vediamo adesso il passaggio successivo: che le politiche imposte da un eventuale commissariamento dell’Italia sarebbero molto meno socialmente dolorose di quelle decretate per Spagna e Grecia. Affermazione smentita immediatamente dalla condizione che viene posta. Che l’Italia potrebbe ottenere la benevolenza di Bruxelles e della troika, presentandosi con la prima rata del Fiscal Compact; cioè con la riduzione annua di circa il 3% del debito pubblico complessivo, ormai superiore al 130%. Visto che una finanziaria di 20 miliardi è già sul tappeto, ne dovremmo aggiungere altri 50. Con 70 miliardi di tagli avremmo una recessione garantita di un altro 3-4% per il 2015: per non parlar del dopo. Vale a dire: la benevolenza della troika basta e avanza a ucciderci, non c’è alcun bisogno che sia crudele. Quindi, la conclusione è da manicomio, in quanto si smentisce da sola.

Premesse e conseguenze vanno quindi abbandonate. Ma soprattutto va abbandonata l’idea che i compiti a casa debbano continuare per preparare una ripresa. I tagli preparano solo recessioni, come si è visto. Per riprendersi, questo paese ha bisogno di spesa. Perché preliminare a qualsiasi ragionamento, su politiche industriali, tassazione e altro, è impedire il collasso della domanda interna che è già per strada; e futuri tagli non possono che aggravarla. Intanto si usino tutti i margini del Patto di Stabilità per far ripartire una spesa pubblica diffusa che dia sollievo ai redditi delle famiglie. Ma la domanda è come finanziarla. Il caso greco ce lo suggerisce.

I Trattati di Maastricht e lo Statuto della Bce proibiscono formalmente alle banche centrali nazionali di finanziare i deficit di bilancio degli Stati, che invece devono andare sui mercati emettendo titoli. Ma la Grecia, dal maggio 2010 è fuori mercato. Nessuno più gli comprava titoli. Eppure ha pur dovuto continuare a finanziare gli ingenti deficit del bilancio dello Stato, perché mentre cadevano le spese, cadeva il reddito e anche le entrate. Adesso il deficit è ridotto, ed è tornata sul mercato. Ma come ha fatto fin’oggi? Con prestiti della Bce. Ma sono le banche centrali nazionali, i suoi bracci operativi, a farli. Cioè, la Banca Nazionale Greca ha emesso moneta per finanziare il deficit del bilancio. Altrimenti, lo Stato greco sarebbe collassato, con conseguente catastrofe umanitaria (si intende, ben peggio di quanto sia accaduto) e politica. Cioè: la crisi ha ripristinato per la Grecia il ruolo della banca centrale nel finanziare il deficit emettendo moneta.

Ovviamente non si può dire semplicemente: facciamo così anche noi. Ci potremmo sentir rispondere: prima accettate l’arrivo della troika. Inoltre qualsiasi tipo di finanziamento del deficit deve essere deciso dalla Bce, non dalle banche nazionali. Ma perché l’Italia non avanza in Europa l’esigenza imprescindibile della messa in opera della massa di investimenti necessaria per ripartire? E se contestualmente, inoltre, ponessimo il problema del loro finanziamento con tutti, ripeto tutti, gli strumenti che la crisi ha rivelato disponibili, anziché invocare improbabili e benefiche troike, non potremmo aprire un dibattito serio sulla modifica dei Trattati? Se il Presidente del Consiglio mettesse questi problemi sul tappeto, potrebbe finire il semestre europeo di presidenza italiana in modo molto più utile, a noi e agli altri, di quanto l’abbia cominciato.

 

Ma, dice Scalfari, questa volta la troika sarà clemente e non farà macelleria come in Grecia e Spagna. La conclusione è insensata, come vedremo, ma andiamo con ordine e incominciamo dalla premessa chiedendosi: Spagna e Grecia sono davvero in ripresa? E semmai, dipende dall’aver fatto le riforme?
La premessa è bislacca anzitutto per l’autore. Alberto Alesina, autore della teoria dell’«austerità espansiva» accolta in pompa magna dall’Ecofin nel 2010, sbeffeggiata dal Fmi nel 2012. Giustamente, visti i risultati, dal 2011 al 2013, di un’austerità senza espansione e con tanta recessione. La premessa è inoltre bislacca di fatto.

La Grecia ha sperimentato una caduta di reddito e occupazione intorno al 25%. Cifre pari solo a quelle degli Usa post ’29. Con una caduta dei salari intorno al 30%. L’edilizia ha ripreso poco, e le famiglie greche restano indebitate. La bilancia commerciale resta in passivo, cioè le importazioni sono maggiori delle esportazioni; anche se la loro differenza si è ridotta di un terzo. Il miglioramento, però, è dovuto soprattutto alla caduta delle importazioni di beni. Un aumento del 5% dell’export di beni a fronte di una caduta dei salari del 30% non è certo un successo; piuttosto un fallimento.
La Spagna non è molto diversa. La differenza cruciale della Spagna è che la caduta dell’occupazione è pari a quella greca, mentre quella del reddito è inferiore a quella italiana; cioè meno del 10%. La ragione della caduta dell’occupazione sta nella legislazione pre-crisi che facilitava i licenziamenti. Poi ci sono state altre riforme; i salari aziendali sono di regola inferiori agli accordi nazionali, e i licenziamenti sono stati accelerati. Il risultato è che la caduta del reddito ha pesato soprattutto sui redditi medio-bassi. Di conseguenza, anche in Spagna, dove il boom edilizio era stato molto forte, le famiglie non si sono liberate dei debiti, come in Grecia. E anche in Spagna la situazione della bilancia commerciale è migliorata soprattutto per la caduta delle importazioni. Ma, nonostante la notevole caduta dei salari e dei prezzi, il turismo è aumentato solo di poco, così come di poco è cresciuto l’export di beni.

La conclusione è che sia l’economia greca che quella spagnola semplicemente hanno smesso di cadere. Cosa che capita a tutte le economie dopo un crollo così imponente (per la Spagna soprattutto in termini di occupazione e prezzi). Non è iniziata una vera ripresa. Le riforme, la riduzione del welfare e dei salari, hanno inciso in misura modestissima sulle modeste riprese. Mentre sono state un fattore cruciale del crollo del reddito, dell’occupazione e del tenore di vita. Quel po’ di ripresa che c’è, è del tutto sproporzionata rispetto alla riduzione dei salari e del tenore di vita delle popolazioni, ed è dovuta più alla ripresa mondiale che alle riforme. Un fallimento. Altro che successo. La premessa è insostenibile e assurda.
Vediamo adesso il passaggio successivo: che le politiche imposte da un eventuale commissariamento dell’Italia sarebbero molto meno socialmente dolorose di quelle decretate per Spagna e Grecia. Affermazione smentita immediatamente dalla condizione che viene posta. Che l’Italia potrebbe ottenere la benevolenza di Bruxelles e della troika, presentandosi con la prima rata del Fiscal Compact; cioè con la riduzione annua di circa il 3% del debito pubblico complessivo, ormai superiore al 130%. Visto che una finanziaria di 20 miliardi è già sul tappeto, ne dovremmo aggiungere altri 50. Con 70 miliardi di tagli avremmo una recessione garantita di un altro 3-4% per il 2015: per non parlar del dopo. Vale a dire: la benevolenza della troika basta e avanza a ucciderci, non c’è alcun bisogno che sia crudele. Quindi, la conclusione è da manicomio, in quanto si smentisce da sola.

Premesse e conseguenze vanno quindi abbandonate. Ma soprattutto va abbandonata l’idea che i compiti a casa debbano continuare per preparare una ripresa. I tagli preparano solo recessioni, come si è visto. Per riprendersi, questo paese ha bisogno di spesa. Perché preliminare a qualsiasi ragionamento, su politiche industriali, tassazione e altro, è impedire il collasso della domanda interna che è già per strada; e futuri tagli non possono che aggravarla. Intanto si usino tutti i margini del Patto di Stabilità per far ripartire una spesa pubblica diffusa che dia sollievo ai redditi delle famiglie. Ma la domanda è come finanziarla. Il caso greco ce lo suggerisce.

I Trattati di Maastricht e lo Statuto della Bce proibiscono formalmente alle banche centrali nazionali di finanziare i deficit di bilancio degli Stati, che invece devono andare sui mercati emettendo titoli. Ma la Grecia, dal maggio 2010 è fuori mercato. Nessuno più gli comprava titoli. Eppure ha pur dovuto continuare a finanziare gli ingenti deficit del bilancio dello Stato, perché mentre cadevano le spese, cadeva il reddito e anche le entrate. Adesso il deficit è ridotto, ed è tornata sul mercato. Ma come ha fatto fin’oggi? Con prestiti della Bce. Ma sono le banche centrali nazionali, i suoi bracci operativi, a farli. Cioè, la Banca Nazionale Greca ha emesso moneta per finanziare il deficit del bilancio. Altrimenti, lo Stato greco sarebbe collassato, con conseguente catastrofe umanitaria (si intende, ben peggio di quanto sia accaduto) e politica. Cioè: la crisi ha ripristinato per la Grecia il ruolo della banca centrale nel finanziare il deficit emettendo moneta.

Ovviamente non si può dire semplicemente: facciamo così anche noi. Ci potremmo sentir rispondere: prima accettate l’arrivo della troika. Inoltre qualsiasi tipo di finanziamento del deficit deve essere deciso dalla Bce, non dalle banche nazionali. Ma perché l’Italia non avanza in Europa l’esigenza imprescindibile della messa in opera della massa di investimenti necessaria per ripartire? E se contestualmente, inoltre, ponessimo il problema del loro finanziamento con tutti, ripeto tutti, gli strumenti che la crisi ha rivelato disponibili, anziché invocare improbabili e benefiche troike, non potremmo aprire un dibattito serio sulla modifica dei Trattati? Se il Presidente del Consiglio mettesse questi problemi sul tappeto, potrebbe finire il semestre europeo di presidenza italiana in modo molto più utile, a noi e agli altri, di quanto l’abbia cominciato.

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