Editoriale

Occhio alle parole

«Nessuno fermerà l’opera decisa dallo Stato». Così Angelino Alfano al cantiere Tav di Chiomonte, dove si è preso una breve pausa montana nel faticoso lavoro che l’ha impegnato in queste […]

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 26 settembre 2013

«Nessuno fermerà l’opera decisa dallo Stato». Così Angelino Alfano al cantiere Tav di Chiomonte, dove si è preso una breve pausa montana nel faticoso lavoro che l’ha impegnato in queste settimane per tentare di mantenere in corsa il più celebre frodatore dello Stato della storia italiana. Nello stesso giorno in cui il filosofo – ed europarlamentare – Vattimo viene indiziato di reato dalla Procura di Torino. E pochi giorni dopo l’ignobile aggressione verbale ai danni di Stefano Rodotà, accusato addirittura di «giustificare» il terrorismo per aver definito, con rigorosa scelta dei termini, «deprecabile, ma comprensibile» uno sciagurato proclama proveniente dal fondo di una galera. L’episodio non meriterebbe altro spazio – è già stato ampiamente trattato – se non chiamasse in causa, anch’esso, il Tav. E se non rivelasse una curvatura inquietante del nostro assetto politico e comunicativo. Val la pena dunque soffermarci ancora un po’, a cominciare dal livello, di per sé rivelatore, del linguaggio.

Se Stefano Rodotà, di fronte al recente proclama eversivo di di Silvio Berlusconi in televisione, avesse dichiarato che si trattava di un atto “deprecabile ma comprensibile”, nessuno di noi si sarebbe stupito. E’ senza dubbio vergognoso che un delinquente, condannato in via definitiva, compaia a reti unificate a tentar di scatenare i propri seguaci contro i propri giudici, ma nel contempo si può perfettamente capire perché uno con quella storia di impenitente frodatore dello Stato a cui sia stata regalata la golden share del governo usi quel potere di ricatto per difendere la propria pessima causa. Allo stesso modo potremmo dire che la carognata del ministro Alfano nei confronti di uno dei più rispettabili e nobili cittadini di questo paese è “deprecabile ma comprensibile”. Nel senso che l’uscita a freddo, brutale nella sua volgarità, del ministro degli interni contro il mitissimo Rodotà fa senza dubbio indignare, ma nel contempo si può capire benissimo perché l’abbia fatto ora, quando serve un diversivo per mascherare le malefatte del padrone del suo partito. E soprattutto nel momento in cui occorre mobilitare tutte le energie disponibili a difesa di un sistema degli affari che ha nel Tav la propria cupola e il proprio forziere.
Potremmo risolverla come un problema di ridotta capacità linguistica. Tanto ridotta da non permettere di riconoscere il significato grammaticale del termine “comprendere”, che significa in primo luogo capire. In latino intelligere, cioè «cogliere i motivi di qualcosa» e non «giustificare qualcuno» (il Grande Dizionario Italiano di De Mauro associa all’aggettivo «comprensibile» il significato «che si può capire», cioè «chiaro», «decifrabile», e solo come ultima accezione, nell’uso figurato, l’espressione «giustificabile»). Ma, sebbene antropologicamente «comprensibile», sarebbe una spiegazione ancora parziale. In realtà il gesto triviale del ministro si inserisce in un clima che sta segnando l’asfittica vita del governo delle “larghe intese” (il bisogno di rimuovere anche linguisticamente l’idea stessa di una alternativa; la necessità di esorcizzare ogni voce non conforme). E che rivela appieno la propria carica d’intollerante aggressività nel caso del Tav, capo di tutte le tempeste e madre di tutte le male politiche, vero e proprio paradigma della mutazione genetica in corso nel nostro sistema democratico e nella nostra classe politica.
È a proposito del Tav che è stata evocata la parola tossica “terrorismo”, varcando un confine linguistico cruciale. Perché rimetterla in circolazione oggi, proiettandola su quella realtà territoriale sensibilissima, giocandola in una congiuntura politica e sociale delicatissima, significa assumersi una responsabilità grave: significa cioè alzare il tiro in misura spropositata, abnorme, sdoganando il potenziale simbolico distruttivo del termine, evocando scenari astorici o anti-storici ma carichi di tensioni emotive, creando le condizioni per la messa al bando “lineare” di ogni posizione antagonistica, di ogni atto non conforme, delle stesse espressioni del pensiero critico schiacciate su quell’immaginario cruento (come appunto il ministro dell’interno ha fatto). Significa, in altre parole, introdurci artificialmente nella dimensione esistenziale di uno “stato d’eccezione” permanente, nel senso originario e letterale del termine, il quale evoca una situazione di sospensione della normalità e della Norma (a cominciare dalla Norma fondamentale, la Costituzione, giù giù verso le “normali” regole del Diritto, fino alle regole del linguaggio e a quelle del corretto comportamento personale e istituzionale). Il che non vuol dire negare che in quel contesto possano essere stato commessi reati, su cui è legittimo indagare e per i quali se comprovati comminare sanzioni commisurate alla gravità effettiva dell’atto, ma a cui non è ammissibile somministrare l’alto voltaggio di una straordinarietà emotivamente alimentata e politicamente enfatizzata.
Terrorista, d’altra parte – lo ricordava ieri Guido Viale su questo giornale – è l’epiteto con cui l’ex governatrice dell’Umbria Maria Rita Lorenzetti aveva qualificato un Dirigente dell’Assessorato all’Ambiente della Regione Toscana, colpevole di mettere i bastoni tra le ruote alla cricca politico-affaristica legata ai lavori costosissimi e devastanti del Tav fiorentino. Aveva aggiunto anche «mascalzone, bastardo e stronzo», a esemplificazione di un quadro mentale da “razza padrona” saturo di senso di onnipotenza – è la stessa che in una conversazione telefonica se ne era uscita con un «e a noi chi ci ammazzerà mai?!» per esprimere gergalmente la propria certezza di impunità – che pervade ormai, come una gramigna, il ceto politico di potere trasversalmente, facendo registrare una sorta di mutazione antropologica. Che a sua volta rivela un nuovo, preoccupante, salto di qualità nel rapporto tra politica e affari e, di conseguenza, tra dimensione affaristica della politica e deterioramento democratico delle istituzioni.
Il fatto è che quando in gioco c’è una grande quantità di denaro, intorno ad esso si eleva un muro che sospende la normale dialettica politica e le stesse regole della deliberazione democratica. E quanto più la posta si fa ricca, tanto più quel muro si fa invalicabile, il meccanismo intoccabile, la discussione inutile perché la decisione sta a monte. La Tav resta, oggi, la più ricca preda in questo gioco: quella in cui maggiore è la concentrazione monetaria e più facile la gestione nei circuiti affaristico-clientelari. Ma la logica del governo delle grandi intese non è diversa: anche qui una cinta muraria istituzionale isola (fin che può, ma il suo potere è alto) un’artificiale maggioranza di governo da ogni possibile turbolenza esterna perché la governabilità deve essere data come un a priori. L’alternativa che non tollera alternative.
Per questo quanto accade in val di Susa ha un valore paradigmatico, che sarebbe importante tener ben presente in questi giorni difficili, in cui tra mille difficoltà si rende urgente riorganizzare una qualche forma di resistenza civile a una deriva pericolosa. Ed il bisogno di riempire il vuoto di senso – e di legalità costituzionale – nel cuore del sistema politico, si fa impellente. Il 12 ottobre sarà una tappa importante di questo processo, che interpella tutti, e da cui – come ha sottolineato don Ciotti nel presentare la manifestazione – nessuno si deve sentire escluso.

 

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