Editoriale

«Ombre rosse» la vendetta

«Ombre rosse» la vendettaUna riunione di gabinetto all'Eliseo – LaPresse

Memoria Parliamo di ben 49 anni fa e per gli altri di 40 anni fa; parliamo di persone che in questi lunghi decenni hanno ricostruito a fatica la propria esistenza lontano dalle luci della ribalta

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 29 aprile 2021

Pensavamo di essere noi quelli capaci di rievocare, con il nostro 50° anniversario, gli anni Settanta. E invece no, a suo modo- non da una prospettiva storica ma con una vendetta storica – si è mosso nelle stesse ore il governo italiano che ha ottenuto l’arresto in Francia di sette ex militanti delle Br – tre risultano in fuga – e uno di Lotta continua.

Protagonista questa coalizione onnivora di governo che, in pandemia, tiene dentro tutto, centrosinistra, centro, centrodestra e destra razzista, avvalendosi perfino dell’«opposizione di sua maestà» dell’estrema destra di Fratelli d’Italia. Tutti plaudenti l’operazione “Ombre rosse” che, è bene ricordarlo, è stata insieme battaglia populista-giustizialista di Salvini ministro degli interni nel Conte 1 e poi richiesta dal ministro dei 5Stelle Bonafede a riprova del giustizialismo populista.

A cosa possa servire un tale iniziativa se non a cementare questa coalizione indefinibile, il cui unico vanto per ora è la quantità del fondo europeo da spendere, non è dato capire. Senza naturalmente sottovalutare i crimini gravi che agli accusati vengono contestati, ci si chiede infatti che cosa rappresenti realmente una giustizia che scatta ad orologeria ma si rivela una giustizia senza tempo, infinita e politica.

Perché, esemplifichiamo sulla figura di Pietrostefani che ha 78 anni ed è gravemente malato – ma non riguarda solo lui la distanza temporale -, ci troviamo di fronte a vicende e crimini come l’omicidio Calabresi: è del 1972.

Parliamo di ben 49 anni fa e per gli altri di 40 anni fa; parliamo di persone che in questi lunghi decenni hanno ricostruito a fatica la propria esistenza lontano dalle luci della ribalta.

Mentre «trionfa Macron», sempre più in difficoltà al proprio interno, che cancella l’asilo concesso da Mitterrand ma avverte: «Vi ho inviato questi dieci, ora la vicenda è chiusa». Riecco dunque immancabili le Brigate rosse. Un abuso di memoria, una strumentalizzazione che si avvia con questa sceneggiatura dell’«arresto dei brigatisti», come se davvero fossero una minaccia cogente, ombre rosse sul nostro incerto presente e su quello dello Stato.

Insidiato invece da ben altre forze che hanno devastato e privatizzato i presidi pubblici. Viene allora legittima una domanda. Come mai sulle stragi fasciste degli anni 60-70 che hanno visto un coinvolgimento diretto di corpi dello Stato italiano, impera ancora una fitta nebbia che, nell’impunità, azzera ogni memoria – siamo il Belpaese delle stragi impunite, con tanto di Commissione parlamentare intestata – mentre per la lotta armata di matrice rossa tutto si conosce e tutti i colpevoli o sono morti o hanno scontato decenni di galera e li stanno ancora scontando?

L’operazione di decontestualizzare le vicende sembra completa e i crimini tutti eguali. No, quelli che hanno visto lo Stato connivente che invece della democrazia costruiva Gladio e finanziava la manovalanza nera stragista, sono archiviati – per non dire delle stragi nazifasciste della Seconda guerra mondiale, finite nell’«armadio della memoria» per le quali aspettiamo, come sa la Procura militare, ancora le riparazioni dalla Germania. La storia italiana dal dopoguerra oggi è stata questo.

Attenzione allora a perseguire una giustizia politica da fiction televisiva motivata con la ragion d’emergenza. Negli anni Settanta ad ogni emergenza seguì altra emergenza, e ciascuna di esse comportò una riduzione delle garanzie fondamentali, una compressione dello stato di diritto con violazione dei diritti soprattutto nelle prassi giudiziarie; fin allo snaturamento dei processi come luogo «terzo» e retrogradato a luogo di lotta a un fenomeno non altrimenti affrontato, soprattutto sul piano politico. Su queste ambiguità si attivò la «dottrina Mitterrand» dell’asilo, alla fine indirettamente accettata anche dall’Italia.

La distanza de “Il manifesto” dai protagonisti della lotta armata è stata ed è profonda: per noi ogni processo rivoluzionario o è di massa e cambia la natura del potere o è sostituzione arbitraria di leadership; «A chi giova?» si chiedeva Rossana Rossanda nell’editoriale del 18 maggio 1972 sul delitto Calabresi, per il quale intravvedeva il tentativo di aprire un varco ad un sistema autoritario e insieme la disarticolazione del movimento di massa e la messa nell’angolo della nuova sinistra.

Questa è stata la critica durissima che noi abbiamo ripetutamente rivolto alla lotta armata, questa è la responsabilità che porta, insieme alla nostra incapacità a costruire una alternativa politica. Consapevoli di questo non abbiamo però mai nascosto in primo luogo a noi stessi, il fatto che ci trovavamo di fronte ad avvenimenti – certo sbagliati e scorciatoie scellerate -, ma di natura politica.

Per i quali trovare espedienti giustizialisti, come fu il “Teorema Calogero”, era vergognoso. La soluzione doveva e deve ancor essere politica. Una lacerazione nel tessuto sociale c’era effettivamente stata e una lacerazione politica si era consumata e andavano comprese le ragioni e riannodati i fili.

La «soluzione» che ora arriva con l’operazione “Ombre rosse” ad anni di distanza sembra aver dimenticato tutto ciò. Invece proprio la motivazione politica di quegli episodi richiede che il tema sia affrontato anche e soprattutto sul piano politico. La risposta carceraria a vicende di trenta o quarant’anni fa stride proprio con quell’impostazione di reinserimento sociale che ogni esecuzione penale, secondo la Costituzione, deve avere.

Occorrerebbe una capacità politica ‘lata’ – si parla di amnistia, ma questo parlamento non la voterebbe mai – per trovare quel necessario equilibrio tra l’affermazione della negatività di quanto vissuto da chi di tali vicende è stato vittima, e il riconoscimento che la stessa vita vissuta fuori dal proprio contesto e in maniera visibile al Paese di accoglienza nonché positiva e rispettosa delle sue regole non può non aver valore nella valutazione odierna, anche perché anch’essa non è stata priva di dolore.

Riconoscere insomma il principio di “verità senza vendetta”, penso all’insegnamento che ci viene dall’esperienza della lotta d liberazione in Sudafrica. Questo può dare oggi l’indicazione affinché ci si avvii lungo vie diverse, che non interrompano inutilmente percorsi di vita.

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