One Health
Attenti ai dinosauri Il 1° dicembre del 2021 tre organizzazioni dell’ONU (FAO, per l’alimentazione e l’agricoltura; UNEP, per l’ambiente; OMS, per la salute) e la WOAH (Organizzazione Mondiale per la Salute degli Animali) […]
Attenti ai dinosauri Il 1° dicembre del 2021 tre organizzazioni dell’ONU (FAO, per l’alimentazione e l’agricoltura; UNEP, per l’ambiente; OMS, per la salute) e la WOAH (Organizzazione Mondiale per la Salute degli Animali) […]
Il 1° dicembre del 2021 tre organizzazioni dell’ONU (FAO, per l’alimentazione e l’agricoltura; UNEP, per l’ambiente; OMS, per la salute) e la WOAH (Organizzazione Mondiale per la Salute degli Animali) nel definire congiuntamente il concetto di One Health, una sola salute, riconoscono che: la salute degli esseri umani, degli animali domestici e selvatici, delle piante e dell’ambiente in generale (compresi gli ecosistemi) sono strettamente legati e interdipendenti.
Di “una sola salute” si era già parlato in relazione ai modelli alimentari.
Il Barilla Center for Food and Nutrition (BCFN), per esempio, nel 2013 aveva sviluppato il concetto di doppia piramide, in cui si evidenziava che una dieta salutare per l’uomo lo è anche per l’ambiente.
Più di recente, nel 2019, uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista medica The Lancet individuava una dieta ideale, salutare per l’uomo e coniugata a un sistema sostenibile di produzione del cibo.
Ma nella definizione di One Health c’è di più, si va ben oltre, e di fatto si infligge una nuova “ferita narcisistica” all’uomo, dopo quelle inflitte prima da Copernico (non siamo al centro dell’universo), poi da Darwin (siamo il mero prodotto dell’evoluzione e non immagine divina), e da Freud (l’Io non è padrone in casa propria ma governato dall’inconscio).
La nuova ferita è scoprire che non è vero che siamo in grado di piegare la natura al nostro volere grazie alla scienza e alla tecnologia, perché dell’organismo natura siamo parte integrante, non “altro”. Così, se stiamo male noi sta male la natura e se sta male la natura stiamo male anche noi. Ed ecco perché la salute è una sola.
Legittimo, a questo punto, chiedersi: se le cose stanno così, per quale ragione continuiamo a pervicacemente a comportarci come se potessimo vincere le leggi della natura e quindi a sprofondare sempre più velocemente in una voragine che porta all’autodistruzione? Perché mai ci sono tante resistenze, anche psicologiche, a prendere le necessarie misure volte a prevenirla questa autodistruzione, invece di accelerarla?
Per dare una risposta ci può aiutare – restando nel tema della salute – il parallelo fra la prevenzione e la cura nel sistema sanitario e la mitigazione e l’adattamento nel sistema ambientale.
La cura (ospedale, farmaci e tutto quello che serve per arginare o eliminare un malfunzionamento dell’organismo) svolge lo stesso ruolo dell’adattamento nella lotta al degrado ambientale.
In entrambi i casi si interviene a danno fatto. Ti curi se sei malato, ti adatti se il danno c’è (nello specifico il danno è il cambiamento climatico unito alla perdita di biodiversità).
Come si prendono dei farmaci o ci si sottopone a un’operazione per combattere il malanno, allo stesso modo si arretra rispetto alla costa, mettendosi un po’ più in alto, per combattere l’innalzamento del livello del mare; oppure si costruiscono nuovi invasi per raccogliere l’acqua che serve per irrigare durante i periodi sempre più lunghi e frequenti di siccità; oppure si cerca di ridurre il rischio idrogeologico con interventi di contenimento; oppure si aumenta il numero delle arnie per compensare la mortalità delle api; e così via.
La malattia, il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, c’è e la combattiamo con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione, ma dopo che si è manifestata.
Però, molti dei ricoveri in ospedale e dei farmaci potrebbero essere evitati grazie alla prevenzione: uno stile di vita sano, alimentazione sana, aria sana. E molte, se non tutte le azioni di adattamento potrebbero essere evitate grazie alla mitigazione, che nel caso dell’ambiente consiste nel ridurre/azzerare le emissioni di gas serra e nel ridurre/azzerare la perdita di biodiversità.
È pure indubbio che prevenire/mitigare costa molto meno che curare/adattarsi, oltre che essere molto meno traumatico.
Perché allora non seguire la strada più logica?
In entrambi i casi la risposta è la stessa: il modello economico e culturale imperante. Un modello economico in cui la crescita del PIL a scala di paese, del profitto alla scala dell’impresa, dello stipendio a scala di lavoratore, deve sempre aumentare, inarrestabilmente.
Un paese in cui il PIL non aumenta è un paese sconfitto, un’impresa che anno dopo anno non aumenti i suoi profitti, è un’impresa fallimentare; un lavoratore che non aumenti le sue entrate anno dopo anno è un perdente nella vita, un emarginato, anche quando quello che guadagna gli basta per avere una qualità della vita soddisfacente.
La crescita senza limiti dell’accumulo di ricchezza è il fattore guida della società in cui viviamo. In questo quadro la prevenzione è una sconfitta, perché fa girare meno denaro: molto meglio la cura, con gli ospedali da gestire, i medici da pagare, i farmaci da comprare. E sono contenti tutti: le aziende farmaceutiche, gli azionisti delle case di cura, le corporazioni del sistema sanitario. E il PIL aumenta, così sono contenti anche i politici e gli economisti lacchè che fanno loro da consulenti.
Lo stesso avviene con l’adattamento, che in questo modello è ovviamente molto meglio della mitigazione. La mitigazione fa guadagnare molto più dell’adattamento gli oligopoli che di fatto ci governano.
Non a caso nella recente COP 27 in Egitto, l’unico accordo realizzato riguarda la quota di finanziamento che i paesi ricchi devolveranno a quelli poveri per compensare i danni causati dal cambiamento climatico; soldi che in gran parte torneranno da dove sono venuti perché a operare in loco saranno per lo più grandi aziende dei paesi donatori.
Puntando sull’adattamento, cioè continuando con le fonti fossili, con le automobili, con la produzione di plastiche usa-e-getta, con la ricostruzione di territori devastati, con l’aumento dei prezzi del cibo a causa della riduzione della produzione alimentare, eccetera eccetera, i profitti di chi gestisce tutto ciò aumentano senza sosta. E sono pure portati in palmo di mano dai politici (e dai suddetti economisti lacchè) perché con la loro attività fanno crescere il PIL.
Che poi l’aumento di questo PIL finisca quasi tutto nelle tasche dei più ricchi, di quelli che combattono con tutte le loro forze per evitare la prevenzione e la mitigazione, è una storia che pare interessare poco gran parte della classe politica, pure quella che si dice sensibile alla giustizia sociale.
E così, alla fine, tanto nel privilegiare la cura a danno della prevenzione quanto l’adattamento a danno della mitigazione, a pagare di più sono i più deboli, i più poveri.
Come si trovano a subire un sistema sanitario inefficiente, pagandone le conseguenze, mentre i più abbienti possono permettersi le prestazioni a pagamento, analogamente si trovano pure a subire le conseguenze delle catastrofi naturali e dell’aumento del costo del cibo, la cui causa e responsabilità è tutta nella fascia più ricca della popolazione mondiale, sulla quale gli effetti del degrado ambientale pesano invece molto poco.
Non aiuta il fatto che la prevenzione, come la mitigazione, è profondamente deludente. Non se ne vedono gli effetti. Infatti, se la prevenzione funziona non ci si ammala, se la mitigazione funziona, non c’è l’evento catastrofico.
Diversa e più efficace, in termini di visibilità, è la cura – come pure l’adattamento. Lì sì che vedo in cambiamento. Prima stavo male e ora, grazie all’ospedale, al farmaco, sto bene – o almeno meglio. E lo stesso con l’adattamento: se ho predisposto opere di difesa da una alluvione, da una siccità, quello che è successo l’anno scorso, quest’anno non si è ripetuto.
Proviamo a tirare le somme.
In entrambi i casi, il sistema sanitario e il sistema ambientale, la causa del malfunzionamento ha una sola origine: la prevalenza dei valori che l’attuale sistema economico e culturale incarna: la crescita indefinita e incontrollata dell’accumulo di ricchezza e dell’estrazione di risorse dall’ambiente.
Un modello che, forse non a caso, richiama alla mente una delle malattie più terribili: il tumore – che si caratterizza proprio per la moltiplicazione incontrollata e indefinita di cellule. E non è un richiamo casuale: in natura nulla cresce indefinitamente.
Il nodo da affrontare è quindi, alla fine, quello dei valori su cui si fonda il funzionamento della nostra società. Il fatto che oggi il valore principale sia l’avidità, cioè l’accumulo, l’avere sempre di più, la crescita senza freni, ne trascina altri, quali la competizione portata alle estreme conseguenze, il considerare la povertà una colpa, il risultato di una incapacità.
Dunque l’avidità è un valore in netto contrasto con altri valori, quali l’equità, e la solidarietà, e infatti porta a una crescita della disuguaglianza, fra nazioni e fra gli individui.
Non è stato sempre così, anzi.
Già Platone poneva fra le virtù politiche la temperanza. La temperanza è pure una delle virtù cardinali; non solo la religione cristiana, ma anche quella l’islamica e quella induista indicano la temperanza come virtù da perseguire.
Temperanza vuol dire sobrietà, che non significa fare a meno di qualcosa che concorre alla nostra qualità della vita, tutt’altro. Sobrietà non significa privazione, significa semplicemente non farsi irretire da messaggi, pubblicitari e non, volti solo a costringerci all’acquisto compulsivo di qualcosa che poi non ci soddisferà, perché l’obiettivo dell’acquisto non è l’oggetto in sé, ma il fatto che qualcun altro lo ha già.
Per poi inevitabilmente (è questo il gioco) scoprire che c’è un qualche altro oggetto che altri hanno già, e io devo assolutamente avere. Una continua insoddisfazione mai saziata.
E allora? Allora tutto ciò ha un nome, e una pratica consolidata, si chiama capitalismo neoliberista.
Spesso si pensa che il capitalismo sia definito da “mercati e commercio”. Ma i mercati e il commercio esistevano da migliaia di anni prima del capitalismo.
Il capitalismo ha solo 500 anni.
Il capitalismo, che impera dagli anni ’80 dello scorso secolo, dipende dall’espansione perpetua, ovvero dalla produzione sempre maggiore di beni mercificati. È l’unico sistema economico intrinsecamente espansivo della storia (il che significa che va in crisi se non si espande continuamente).
Nel capitalismo lo scopo dell’aumento della produzione non è quello di soddisfare i bisogni umani, ma piuttosto quello di estrarre e accumulare profitti. Questo è il suo obiettivo principale ed è anche l’obiettivo principale dell’innovazione.
Il capitalismo non è interessato alla prevenzione, alla mitigazione, anzi le legge come nemici, in quanto ostacolano i processi espansivi che consentono la continua crescita dei patrimoni dell’oligarchia economica e finanziaria che governa il mondo.
È questo il nemico da battere, o almeno da riformare partendo dalle sue basi teoriche, che sono in totale contrasto con la possibilità che l’umanità ritrovi il suo posto nel sistema Terra.
Lo dobbiamo alle generazioni a venire, alle quali lasciare un mondo in cui le parole d’ordine sono sobrietà, solidarietà, equità. E non si tratta di astrazioni filosofiche o religiose, ma valori che guidano i soli comportamenti compatibili con lo sviluppo sostenibile, e quindi con un mondo in cui l’Antropocene non sia segnato da una catastrofe che annienti l’umanità ma rappresenti un nuovo stadio nel processo evolutivo del sistema Terra.
Articolo pubblicato in origine su connettere.org
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