Parricidio democristiano
Moriremo democristiani? Sarà questa la via d’uscita dal berlusconismo? E’ la traiettoria che la conclusione del nuovo voto di fiducia al governo delle larghe intese sembra indicare. Nessun passaggio epocale, […]
Moriremo democristiani? Sarà questa la via d’uscita dal berlusconismo? E’ la traiettoria che la conclusione del nuovo voto di fiducia al governo delle larghe intese sembra indicare. Nessun passaggio epocale, […]
Moriremo democristiani? Sarà questa la via d’uscita dal berlusconismo? E’ la traiettoria che la conclusione del nuovo voto di fiducia al governo delle larghe intese sembra indicare. Nessun passaggio epocale, nessuna giornata storica da segnare sul calendario, come con grande enfasi il presidente del consiglio annunciava nel suo intervento all’assemblea del senato, ancora immaginando una clamorosa spaccatura del centrodestra berlusconiano. Ma un cambiamento dello scenario politico sì. A rivelarlo, in diretta televisiva, la mesta espressione da cane bastonato di Silvio Berlusconi quando, alzandosi dal seggio, dal quale presto dovrà decadere, ingoiava pubblicamente la crisi di governo rinnovando la sua fiducia al ministero di Enrico Letta. Proprio il condannato che urla al golpe, proprio lui che avrebbe voluto giocare l’ultimo asso delle elezioni anticipate.
E tutto grazie a quel mezzo parricidio compiuto da Angelino Alfano verso il suo padre-padrone, grazie al nano che si erge sulle spalle del gigante per una pubblica, inedita manifestazione di dissenso verso il cupio dissolvi di un leader sbandato. Un gesto di resistenza e un istinto di sopravvivenza capace di spostare il baricentro del centrodestra dal radicalismo berlusconiano al centrismo democristiano.
Un esito in gran parte farina delle pressioni di Confindustria, della Conferenza episcopale, delle cancellerie europee, dello smarrimento di quell’elettorato che ancora segue, dopo l’abbandono dei sei milioni e mezzo di voti delle ultime elezioni. E ovviamente possibile solo oggi, nella fase più acuta della crisi economica e istituzionale, quando gli incubi hanno sostituito i sogni, nel momento terminale di una stagione politica iniziata con la rivoluzione del ’94.
Se e quanto questa lotta interna per la leadership del Pdl determinerà una meno perigliosa navigazione del governo lo vedremo già nei prossimi giorni, quando il parlamento sarà chiamato a votare per la decadenza di Berlusconi da senatore, quando i ministri dovranno scrivere e spedire a Bruxelles la legge finanziaria, quando rivedremo all’opera un governo costretto tanto più ad annacquare le sue politiche quanto più larghi sono gli interessi che è chiamato a tutelare. Come le scelte su Imu e Iva, come il sì al rifinanziamento degli F35 e il no al salario minimo hanno ampiamente, simbolicamente dimostrato.
Dal presidente Letta nessun accenno di autocritica, piuttosto un continuo autoelogio, l’insistente sottolineatura del buon, anzi ottimo, lavoro svolto fin qui dai suoi ministri. Restano dunque tutte, semmai rafforzate dal rinnovo del patto politico, le ragioni di un’opposizione a intese sciagurate, che non intendono segnare alcuna discontinuità con i governi precedenti, ma anzi ne rivendicano l’eredità. Con il Pd di Letta e Renzi, registi di una traghettamento del partito nell’antica casa dorotea del grande centro democratico e cristiano.
Si rassegnino dunque gli italiani che hanno votato per un’alternativa al montismo e che invece assistono a una sua replica. A loro si chiede di restare a guardare, di affidarsi alle larghe intese. Esattamente il contrario di quel che si dovrebbe fare: trovare il modo di costruire un’alternativa di largo consenso capace di corrispondere al bisogno di giustizia sociale che non verrà da questo governo.
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