Passaggio a Nord-Est per il fascioleghismo
La Lega torna in scena. Con due spettacoli non da poco: la manifestazione di Roma e il conflitto aspro al suo interno nei territori del Nord Est. Roma che consacra […]
La Lega torna in scena. Con due spettacoli non da poco: la manifestazione di Roma e il conflitto aspro al suo interno nei territori del Nord Est. Roma che consacra […]
La Lega torna in scena. Con due spettacoli non da poco: la manifestazione di Roma e il conflitto aspro al suo interno nei territori del Nord Est. Roma che consacra definitivamente Salvini come il Le Pen italico, il Veneto che rimanda alla tradizione leghista del sindacalismo di territorio secessionista o regionalista a seconda della alleanze sociali e politiche.
Gli analisti politici giustamente collocano l’ascesa e i toni del salvinismo dentro la crisi del centrodestra. I più attenti, si veda la cronaca ragionata della manifestazione di Gad Lerner su Repubblica, segnalano l’evoluzione di chi si è sempre caratterizzato come l’imprenditore politico delle paure e del rancore verso il fascio-leghismo dichiaratamente razzista.
Per capire sarà il caso di chiedersi anche se queste fenomenologie politiche non rimandano anche al frantumarsi di quel blocco sociale e produttivo che, soprattutto al Nord, era la base socio-politica del forza-leghismo del ventennio di Berlusconi. Qui ci aiuta guardare a Nord Est. Al frantumarsi di quella società locale dei produttori, di capitalisti molecolari che si divideva in un’armonia competitiva tra individualismo proprietario berlusconiano e rivendicazioni territoriali di autonomia/secessione del rancore del Nord. Sostengono da tempo che, nel soccombere sotto i colpi selettivi della crisi, dai molecolari identificati ben prima del 2008 con euro e fine della svalutazione competitiva, il blocco sociale del «Casannone», la casa, il capannone, il campanile del postfordismo italico della subfornitura, delle villette a schiera e dei centri commerciali dilaganti nei territori pedemontani, ha attraversato la metamorfosi antropologica.
La famiglia tutta messa al lavoro per fare impresa non bastava più a reggere modelli produttivi sempre più segnati dall’innovazione competitiva. Nella società del benessere conquistato a fatica, l’eredità imprenditoriale dell’impresa ai figli difficilmente riusciva.
Non ci si è resi conto che l’immigrazione porta sì braccia, ma anche persone, culture, religioni, stili di vita che comportavano il riconoscere e il riconoscersi. È saltato così quel collante comunitario per cui l’impresa era un progetto di vita che teneva assieme famiglia, paese, figli al lavoro e manodopera abbondante e flessibile con le sanatorie per gli immigrati funzionali in contesto geomediterraneo da esodo per lavoro e non profughi da un Mediterraneo in ebollizione. Se poi ci si aggiunge il processo di finanziarizzazione dell’economia e il venire meno delle banche locali simbiotiche con le imprese diffuse, il ritrovarsi indebitati nel fare impresa e «uomo indebitato» con Equitalia, ben si capisce il trauma del sentirsi spaesati nella metamorfosi.
Dal 2007 il Pil del Nord Est è calato del 8%, la domanda interna del 9% e si sono persi 138mila posti di lavoro. Non è andata solo così. Chi ha attraversato la crisi cambiando si trova agganciato a filiere produttive di medie imprese internazionalizzate che hanno reti lunghe verso la Cina, la Russia, gli Usa, oltre che il tradizionale mercato tedesco ed europeo. Molti dei figli “studiati” dei capitalisti molecolari di un tempo sono makers che fanno nuova manifattura e si disegnano piattaforme produttive e aree metropolitane oltre il localismo dei campanili per competere nella globalizzazione. Problemi che interessano poco al salvinismo, molto più interessato, a proposito di aree metropolitane, a rinfocolare tra Roma e Milano la guerra tra gli ultimi per la casa e le paure nella crisi non solo economiche ma delle forme di convivenza.
Per continuare in questo esercizio di ragionamento partendo dal frantumarsi del blocco sociale e il leghismo oggi, si può azzardare l’ipotesi che la diatriba Tosi-Salvini più che questione di potere tra veneti e lombardi nasconde il fatto che il sindaco di Verona ha come ipotesi politica il rianimare ciò che resta del Veneto dei campanili produttivi cercando di agganciare quelli che ce l’hanno fatta con l’adagio politico di un tempo forza-leghista e ancora più in profondità facendo riferimento a quella transizione dolce tutta democristiana che ha portato il Nord Est nella modernizzazione.
In mezzo ci stanno Maroni e Zaia, con il loro referendum per l’autonomia di antica memoria e le nuove ipotesi di macro regione come parola chiave per collocare i loro territori nello stress di una modernizzazione di sistema necessaria per competere.
Salvini più che dialettizzarsi con le fibrillazioni territoriali di un blocco sociale in crisi di identità e visione, che aveva prodotto il rancore del voler contare di più, par più essere interessato ad essere polo di attrazione del rancore da rabbia e rinserramento contro profughi, immigrati, euro, usando i bisogni dei tanti nella crisi contro l’impianto dei diritti universali in nome della tradizione local-familista con un po’ di salsa nazionalista anti-europea. È come se dicesse «arrabbiati e forconi unitevi».
Staremo a vedere. Anche perché alla fin fine la politica è sempre anche questione sociale. Il rancore corre nell’orizzontalità della nuova questione politica data dai 16 milioni di poveri censiti dall’Istat. E la sinistra? A Nord Est pare contare sullo stellone della modernizzazione dall’alto del renzismo, accattivante per quelli che ce la fanno a competere. Più in generale, guardando anche Salvini, mai come oggi si sente la mancanza di una sinistra sociale in grado di svuotare il disagio che si coagula in forme di rancore rinserrato e cattivo.
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