Perché non si ferma la scia di sangue
C’è un rapporto molto stretto tra l’attentato di Berlino e quello di Ankara, nonostante la modalità diversa e l’obiettivo: il cuore simbolico d’Europa in più durante il Natale, l’assassinio dell’ambasciatore […]
C’è un rapporto molto stretto tra l’attentato di Berlino e quello di Ankara, nonostante la modalità diversa e l’obiettivo: il cuore simbolico d’Europa in più durante il Natale, l’assassinio dell’ambasciatore […]
C’è un rapporto molto stretto tra l’attentato di Berlino e quello di Ankara, nonostante la modalità diversa e l’obiettivo: il cuore simbolico d’Europa in più durante il Natale, l’assassinio dell’ambasciatore russo nello stesso giorno in cui Mosca al Consiglio di Sicurezza Onu non ha più posto il veto ma ha approvato la risoluzione francese che chiede l’invio di funzionari della Nazioni unite a monitorare l’evacuazione dei civili.
Il legame tra i due attentati si chiama Aleppo. Si corre al paragone con Nizza, del 14 luglio scorso, visto l’utilizzo anche qui di un micidiale Tir. Ma a Nizza, come per il Bataclan e per Molenbeek a Bruxelles, il terrorismo jihadista che colpiva nella spirale attorcigliata guerra-terrorismo, corrispondeva ad una sua fase ancora «espansiva».
Ma ora la riconquista di Aleppo est segna la prima sconfitta dello jihadismo più o meno collegato ad Al Qaeda e all’Isis.
Ci si è riempita la bocca delle «stragi di Aleppo» in questi ultimi giorni, dispensando la chiacchiera della scoperta
a destra e peggio ancora a sinistra, dopo ben cinque anni di massacri veri che hanno fatto «semplicemente» 200 mila morti e 7 milioni di profughi. Senza capire che in questa ultima settimana è cominciata invece, con la disfatta delle milizie integraliste e delle forze combattenti ad esso legate, l’evacuazione di decine di migliaia di civili ostaggio del doppio assedio dell’intera città e bersaglio di bombardamenti micidiali a est come a ovest. L’attacco ai bus arrivati per evacuare anche i civili sciiti, incendiati dai miliziani islamisti al grido «gli apostati usciranno solo morti» ha, forse, fatto capire chi è davvero contro l’evacuazione.
Ora c’è la reazione rabbiosa dello jihadismo. Che di fronte alla perdita di Aleppo e verso le «vie di ucita» di Idlib e Raqqa, dall’irachena Mosul – che prenderà a modello le stesse distruzioni e propaganda – chiama alle armi: «Moltiplicate gli sforzi, colpite i crociati: americani, europei, traditori turchi, comunisti russi, tiranni arabi». Ed è partito l’assalto ai turisti in Giordania, l’uccisione dell’ambasciatore russo, la strage di Berlino. Il timore è che non sia finita qui. Il messaggio è indirizzato anche alle leadership, politiche e militari, occidentali. A chi finora li aveva usati per destabilizzare il Medio Oriente, perché dopo la riuscita impresa della Libia doveva toccare alla Siria. Per questo una coalizione internazionale, gli Amici della Siria, formata dai Paesi europei (Francia, Germania e Italia compresa) con gli Stati uniti, la Turchia e le petromonarchie sunnite del Golfo ha per tre anni, sostenuto finanziariamente, addestrato ogni milizia, «democratica» o islamista che fosse. Hanno accolto, ecco il punto, tutti i foreign fighters – secondo lo stesso Obama, compresi quelli americani, quasi 20mila combattenti – che sono partiti dalle città europee. E naturalmente i solerti Servizi segreti che adesso danno la caccia ai profughi, non ne sapevano nulla.
La guerra che abbiamo aizzato altrove – ma Aleppo, ridotta in rovine, è il cuore del Medio Oriente esattamente come Berlino lo è dell’Europa – ci ritorna in casa con il gesto individuale criminale e con i foreign fighters di ritorno e sconfitti. E con la tragedia dei profughi, quei civili sconfitti da subito e in fuga dal conflitto armato che noi respingiamo.
È la resa dei conti. Meglio della vendetta. Come urlava l’attentatore di Ankara – strano «ex poliziotto», forse ex guardia del corpo dello stesso Erdogan – dopo avere ucciso l’ambasciatore russo Andrey Karlov. E vale soprattutto per la Turchia di Erdogan. Che, ancora una volta con questo attentato in diretta, mostra la sua cronica incapacità a gestire la crisi interna, diventata una polveriera. Tra islamisti residuo della jihad in Siria, cosiddetti gulenisti-golpisti, la lotta dei kurdi e settori estremi islamisti dello stesso Akp che non vedono di buon occhio il legame con Mosca. La vicinanza improvvisa con l’ex nemico russo matura – sempre gestendo il mercato dei profughi con l’Ue che continua a non aprirsi ad Ankara – una nuovissima distanza dalla Nato, alla quale il Sultano, pur sempre atlantico, rimprovera il silenzio-assenso al golpe militare maldestro che doveva spodestarlo.
Perché l’uccisione dell’ambasciatore russo conferma, nel sangue, la nuova centralità internazionale della Russia. Di fronte al disastro occidentale e al coinvolgimento del leader russo nella crisi siriana a fine 2015 da parte dello stesso Obama, quando apparve chiara che la Turchia – alla quale era stato delegato il lavoro sporco – era complice dell’Isis (traffici di armi, petrolio e non solo). Così Putin convoca il vertice con Iran e Turchia, gestisce la tenuta al potere di Assad per un exit morbido, concede – e sarebbe tragico – che Erdogan rilanci la repressione dei kurdi. Subito nel Rojava siriano, magari impegnando i qaedisti in fuga da Aleppo. Più che la spartizione della Siria è quella del Medio Oriente, con sullo sfondo l’Arabia saudita all’improvviso silenziosa dopo essere stata il burattinaio del conflitto.
A latere una litania di destini incrociati di ambasciatori. Come dimenticare Chris Stevens ucciso a Bengasi l’11 settembre 2012 dagli stessi jihadisti che aveva coordinato per conto dell’intelligence Usa per abbattere Gheddafi. Una morte che sia Obama che Hillary Clinton preferiscono nascondere. A differenza di quello che fa Putin per Andrey Karlov. Mentre arriva la mina vagante David Friedman, nominato da Trump ambasciatore in Israele contro le aspettative palestinesi: vuole infatti spostare la sede diplomatica Usa da Tel Aviv a Gerusalemme.
La scia di sangue e di odio seminati con le nostre guerre ci torna in casa e non si ferma. Oltre la ritualità del Natale, la pace non ha voce, non è più un progetto, né ha sede in organismi internazionali. Tantomeno nella Sinistra residua che mette l’argomento in appendice ai suoi documenti.
E a urlare «maledetta guerra» resta solo la «non profana» leadership del papa.
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