Pianta-Salvati, chi è l’estremista?
La polemica Il blocco egemone neoriformista ha costruito uno spazio politico «normale» oltre il quale c’è solo l’estremismo. Al suo interno, prevale una logica di convergenza e non di conflitto
La polemica Il blocco egemone neoriformista ha costruito uno spazio politico «normale» oltre il quale c’è solo l’estremismo. Al suo interno, prevale una logica di convergenza e non di conflitto
Mario Pianta in un recente articolo su questo giornale sembra stupirsi per il fatto che Michele Salvati abbia etichettato come libro di un’ «estrema sinistra», seppur «pensante», un importante contributo proveniente dagli studiosi di economia raccolti intorno a «sbilanciamoci». Si tratta, in verità, di un indicatore assai interessante del ruolo di un linguaggio, fatto passare per asettica descrizione di uno stato di fatto, nella battaglia politico-culturale in corso. Tanto più indicativo in quanto l’espressione viene usata da uno studioso di indubbie qualità personali ed intellettuali. Insomma una «testa pensante» che non ha con il lessico rapporti casuali. La collocazione su un asse degli estremi destra/sinistra non è la conseguenza di una tecnica neutrale che valuta pesi e contrappesi, ma degli esiti di aspre lotte culturali e politiche. Per questo tali collocazioni, e in particolare quella «estrema», si ridefiniscono continuamente e vanno valutate come sintomi di processi in corso, del tutto esterni rispetto a qualsiasi criterio di oggettività.
La democrazia si è storicamente basata sull’idea di emancipazione universale. Una concezione di tal genere è del tutto includente. La sfera economica, decisiva nel percorso graduale verso forme più alte di rapporti di uguaglianza, non può esserne esclusa, non può uscire dalla logica della competizione e del conflitto che concerne anche le forme politiche (parlamenti, governi) deputate ad una qualche forma di regolazione. Nello stesso tempo, però, il carico di istanze democratiche tendenzialmente crescente, secondo una razionalità emancipatrice, finisce per confliggere con la razionalità dei processi di accumulazione. Di qui la necessità, da parte del blocco egemone, di escludere la sfera economica dai processi decisionali politici, in particolare dalle assemblee rappresentative, in particolare da quelle a rappresentanza proporzionale. La necessità di costruire uno spazio politico normale, oltre il quale c’è solo la dimensione dell’estremismo.
L’elettorato si occupi di sicurezza, identità, etica ecc., ma non sia chiamato a decidere aspetti che riguardano la struttura sottesa all’ordine politico e sociale esistente. La competizione politica non deve includere quelli che vogliono cambiare questo ordine. L’ineguaglianza non può, pertanto, diventare una questione elettorale.
L’utopia democratica è stata ridotta a distopia e l’utopia mercatista ha perduto proprio il carattere utopico mediante il processo di naturalizzazione causato dalla repentina perdita di bilanciamento simmetrico. Così è diventata il punto di riferimento, il principio agente, l’elemento regolatore delle politiche economiche possibili. In tale contesto la metafora spaziale utilizzata per tanta parte della storia contemporanea ha perduto ogni, pur relativa, funzione ordinatrice. Estremista è, dunque, qualsiasi posizione teorica e politica che abbia come punto di partenza una dimensione critica, nella sostanza, delle dinamiche di movimento di un presente che, proprio in quella sostanza, si vuole assoluto.
Così le politiche economiche di smantellamento delle conquiste sociali del passato, le politiche sociali di restaurazione, anche le più dure non sono estremiste. La resistenza a tali politiche è estremista. Ora è possibile che la resistenza sia isolata, perdente, ecc., ma perché estremista? Tra coloro che vogliono difendere la ormai lunga consuetudine di un orario di lavoro inferiore alle 40 ore settimanali e coloro che vogliono introdurre la possibilità di arrivare fino a 60, chi sono gli estremisti? In una logica di realtà la risposta è ovvia. Nella logica del principio regolatore in ultima istanza è altrettanto ovvia.
Tali dinamiche vanno governate tramite processi di inclusione politica sempre più ampi. Non importa se le posizioni di coloro che via via vengono cooptati dentro il sistema di una governabilità allargata non abbiano posizioni coincidenti sull’ampio spettro delle opzioni politiche della normalità. In tale ambito possono anche assumere, più o meno provvisoriamente, funzioni di opposizione. L’estremismo riguarda solo coloro che non convergono nel sistema di governabilità allargata.
Si comprenderà agevolmente, allora, come l’accusa di estremismo non abbia alcun rapporto con il principio di realtà, ma abbia un rapporto stretto con l’invettiva politica. L’invettiva nei confronti dei «divergenti» è necessaria per i «convergenti». La convergenza neoriformista non può sottrarvisi. Michele Salvati, in ambito neoriformista, è stato il più conseguente e radicale delimitatore del campo del «non estremismo». «Pulizia teorica» è l’espressione da lui già usata in un articolo del 30 novembre 1989.
Una tendenza che mi pare di scorgere è quella di salvare larghi pezzi di Marx e Gramsci e buttare alle ortiche Lenin. Troppo facile. Gramsci era molto di più di un politico e un teorico della Terza Internazionale più di quanto oggi si voglia far credere. Con calma e con ordine, perché non sono cose che si fanno in fretta, credo proprio ci sia bisogno di rimettere le mani su tutto questo. Via anche Gramsci, dunque, ma soprattutto via Marx, causa dell’errore primigenio della critica dell’economia politica.
Per «rimettere le mani su tutto questo» Salvati elabora un’ «originale» metodologia storiografica ad uso della scuola quadri dei neoriformisti: «una lettura condivisa della storia d’Italia» senza indulgere a letture «ideologiche», «partigiane» come quelle che avrebbero caratterizzato la storiografia italiana dopo il 1945. Occorre insomma «una visione del passato non divergente» (Reset, 87, gennaio-febbraio 2005).
Dunque, questo è il punto: il progetto culturale neoriformista prevede una logica di convergenza tra le forze che si disputano il mercato politico cercando di influire soltanto ai «margini» di quel mercato. Ciò implica che non vi debba essere nessun conflitto «centrale», e la lettura della storia può indicarlo. Di qui la necessità che il programma politico neoriformista includa anche un programma di riscrittura-rilettura della storia. Il professor Salvati conosce benissimo i problemi epistemologici che riguardano le scienze sociali. La storia è sapere scientifico perché organizzato secondo logiche che rispondono ad un continuo processo di ridefinizione di obbiettivi e metodi, un sapere di cui, con tutte le incertezze della scienza (anche di quelle cosiddette esatte) è comunque garante una «comunità scientifica». I risultati di una lunga stagione storiografica vengono ora messi in discussione dalle esigenze politiche di una scuola di partito. Crede davvero il professor Salvati che i suoi colleghi studiosi di storia in una lunga e fervida stagione di studi, anche profondamente innovativi, abbiano prodotto solo narrazioni ideologiche?
Nel caso della scuola quadri dei neoriformisti il «nuovo» proposto per la conoscenza storica coincide esattamente con il programma che, tra il 1670 e il 1698, il precettore duca di Montausier elaborò per la pubblicazione di classici greci e latini epurati ad usum Delphini. Su quale configurazione assiale da destra a sinistra è possibile collocare l’uso neoriformista del sapere storico?
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