Populismi di governo, la prevedibile imprevedibilità
Se è vero che le chiacchiere stanno a zero, l’allarme però resta necessario. Il populismo di governo – Trump docet con la crisi coreana – è e sarà prevedibilmente imprevedibile. […]
Se è vero che le chiacchiere stanno a zero, l’allarme però resta necessario. Il populismo di governo – Trump docet con la crisi coreana – è e sarà prevedibilmente imprevedibile. […]
Se è vero che le chiacchiere stanno a zero, l’allarme però resta necessario. Il populismo di governo – Trump docet con la crisi coreana – è e sarà prevedibilmente imprevedibile. Il caos sarà quasi la costante, confermando alcuni elementi che lo contraddistinguono: il nazionalismo, il condizionamento nella e della Rete che, da valore d’uso comunicativo è diventato il simulacro onnivoro dei rapporti umani; poi il mantra del «nuovo»; la conflittualità nominale dell’annuncio in un mélange di tutto e il suo contrario; la terra di mezzo del ceto medio come società di riferimento (di lavoratori, articolo 18 e Jobs Act, stragi sul lavoro non c’è traccia); e sui migranti, l’allargamento del solco coloniale tracciato dal ministro Minniti.
Il fatto è che la nascita del governo Conte in Italia si inscrive nell’avvento di una stagione-deriva del nazional-populismo al governo del mondo. Dalla Brexit contro l’Unione europea realizzata, della sola moneta e della mancata risposta solidale e comune sull’immigrazione; a Trump, l’interprete della «pancia» degli americani e dell’America first in difesa della classe operaia e dell’economia a stelle e striscie; da Macron, che scompagina l’avvicendamento dei partiti storici e si afferma sull’onda di una primazia neogollista e neocoloniale; alla destra estrema, patinata di socialdemocrazia come a Praga, nell’Est Europa e in Austria. Va sottolineato un punto.
La dichiarazione del testo integrale dell’incaricato presidente del Consiglio, (rimaneggiata da Mattarella), porta in calce la «consapevolezza di confermare la collocazione europea e internazionale dell’Italia»; certo il governo aprirà fronti in Europa per «i negoziati in corso sui temi del bilancio europeo, della riforma del diritto d’asilo e del completamento dell’unione bancaria». Ma la sostanza è che, dopo tante dichiarazioni elettorali provocatorie di Grillo e Salvini, restiamo nell’euro e, fatto non secondario, ben saldi nell’Alleanza atlantica. A qualcosa devono pur essere serviti i via vai di Di Maio e Salvini all’ambasciata Usa di Via Veneto a Roma.
Che fine faranno dunque le tante promesse di rimettere in discussione le troppe inutili e dispendiose missioni di guerra che chiamiamo «di pace», a cominciare dall’Afghanistan che dura da 16 anni più di ogni altro conflitto mondiale mai esistito? Certo, c’è la promessa di togliere le pesanti sanzioni alla Russia dopo la crisi ucraina, ma solo perché ci penalizzano (e magari con una strizzatina d’occhio di Salvini all’iper-nazionalista Putin), non perché strategicamente contro il ruolo dell’Europa e contro la pace; mentre si tace sull’allargamento a est della Nato a guida Usa, strategia rischiosa all’origine della crisi ucraina. Ci saranno dunque schermaglie con l’ordoliberismo ormai precario della Germania e l’europeismo sarà perfino rivendicato. Ma in che modo? Alla maniera ricattatoria dei Quattro di Visegrad, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Repubblica ceca, paesi con leader come Orbán di riferimento ideale per Salvini. Del resto sono tutti Paesi dove lo stato di diritto è stato rimesso in discussione, che più che all’Unione europea, della quale minacciano ogni giorno l’omogeneità politica, aderiscono mani, piedi e bilancio alla Nato, l’unico, inossidabile organismo sovranazionale del Vecchio Continente. Certo ora si parla di difesa europea, ma i costi si sommerebbero a quelli dei bilanci Nato, non sarebbero alternativi. L’Italia diventerà molto probabilmente il quinto paese di Visegrad, o il sesto visto l’ingresso tra i disobbedienti sull’immigrazione del governo di estrema destra di Vienna. Trump, oltre che minaccia sospesa nel mondo, per la compagine nazional-populista è anche un faro. Intanto vediamo quanto durerà il silenzio dell’Italia sulle sanzioni all’Iran; e quanto l’omertà verso la tragedia palestinese e le provocazioni di Netanyahu.
Quindi avremo una ripresa di statalismo accentratore di destra – dopo che la sinistra ha dismesso la questione del ruolo dello Stato in economia – per la difesa del «first», prima la nazione mia contro la tua; per una Europa che diventi baluardo degli esclusivismi: la nazione contro la finanza internazionale, i dazi contro quello che finora è stato definito libero commercio, gli interessi nazionali contro l’«invasione» dei migranti da ricacciare via dalla «civiltà occidentale». A proposito: tutti sbraitano per Savona all’economia, ma nessuno protesta per Salvini ministro degli interni.
Quanto ai migranti, basterà seguire le orme tracciate dal ministro Minniti che per fermare la destra si è fatto destra: criminalizzazione del soccorso ai migranti – gli «ultimi degli ultimi» di cui parla Marco Revelli – e di ogni apertura a chi fugge dalle nostre guerre e dai risultati del nostro modello di sviluppo-rapina; con l’deologia dell’«aiutiamoli a casa loro» come viatico di un nuovo protezionismo-colonialismo, già praticato impunemente da decenni dalla Francia in Africa e confermato dal disastro provocato con la guerra in Libia; dove torneremo in armi e controlli, regalando fondi alle milizie di turno perché allarghino l’universo concentrazionario e criminale dei campi e delle prigioni libiche, fino alla «nuova frontiera» coloniale dell’Europa che, secondo la Commissione europea, è il Niger.
Se dopo il terremoto del 4 marzo le chiacchiere stanno a zero, allora approfittiamone per stabilire, con un nuovo lavoro “filologico” di opposizione quel che finalmente è di destra e di sinistra, di fronte all’avventura nazional-populista che è tutto meno che scontata. E che apre da subito conflitti al proprio interno e con il mondo.
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