Problema di partito
Regionali chi? Siamo stati facili profeti nel titolo del giornale di domenica. Ma non fino a prevedere un crollo della partecipazione così esteso. E quindi traumatico e preoccupante per tutti […]
Regionali chi? Siamo stati facili profeti nel titolo del giornale di domenica. Ma non fino a prevedere un crollo della partecipazione così esteso. E quindi traumatico e preoccupante per tutti […]
Regionali chi? Siamo stati facili profeti nel titolo del giornale di domenica. Ma non fino a prevedere un crollo della partecipazione così esteso. E quindi traumatico e preoccupante per tutti i partiti. In particolare per il Pd: i suoi voti in Emilia Romagna erano un milione e duecentomila, ma a sei mesi dalle elezioni europee sono diventati appena cinquecentomila. Mancano all’appello più o meno 700 mila elettori, e rispetto alle regionali del 2010 ne sono scomparsi più di trecentomila.
Una brutta e pericolosamente repentina cura dimagrante per l’osannato partito renziano. Più in generale, una vera e propria grande fuga dalle urne nella roccaforte della partecipazione elettorale e del consenso al Pd. Al dunque l’Emilia Romagna avrà un presidente regionale votato dal 49 per cento del 37 per cento degli emiliani romagnoli: quindi il 18 per cento degli aventi diritto al voto.
In sostanza quel roboante 45 per cento del Pd e quel 49 del candidato, alla luce dei voti reali si presentano per quel che sono: percentuali ingannevoli anche se non riescono ad occultare la sfiducia nella partecipazione spia della crisi verticale della rappresentanza. Che colpisce a fondo un partito in crisi di militanza e orfano di centinaia di migliaia di iscritti.
Sembra passata un’eternità dal voto europeo che aveva fatto gridare al “miracolo”, benché in termini assoluti il Pd avesse perso un milione tondo di voti rispetto a quelli guadagnati dalla segreteria di Walter Veltroni.
Si può vedere il bicchiere mezzo pieno, come fa Renzi, o mezzo vuoto. Un dato è chiaro: il rifiuto delle urne. Che in Emilia Romagna ha una sua specificità locale: le dimissioni per abuso d’ufficio del presidente uscente; le spese pazze dei consiglieri e l’indagine giudiziaria a ridosso delle elezioni; lo scarso appeal elettorale e di immagine del candidato del Pd alla carica di governatore; le primarie per finta; il forte calo degli iscritti ad un partito che faceva della militanza una ragion d’essere.
Se a tutto questo aggiungiamo l’effetto Renzi – stavolta in negativo – non c’è da stupirsi più di tanto del risultato. Anche se non per questo si può sostenere che il premier è oggi minoranza del paese. Per poter comprendere e giudicare serve una tornata elettorale ben più consistente.
Da questa appena conclusa arrivano segnali molto forti. Non sempre limpidi. Se in Emilia Romagna si vota meno che in Calabria, non per questo il capovolgimento della classifica dell’affluenza elettorale significa riscatto del Sud, visto l’invito dell’ex governatore Scopelliti – inquisito e dimissionario – a votare per il candidato del centrosinistra e la discutibile composizione delle liste.
Comunque se è vero che non si tratta di una sconfitta tout-court di Renzi, è altrettanto chiaro che nessuno può esultare. Perciò suonano un po’ patetiche le reazioni degli esponenti del cerchio magico di via del Nazareno – come quelle della baldanzosa Serracchiani – che mettono in risalto «il Pd oltre il quaranta per cento». Parole che tendono ad esorcizzare una crisi di democrazia e di partecipazione preoccupanti, una defezione di massa dal partito proprio là dove il suo cuore batte più forte. Un cuore pompato da arterie fondamentali, come i sindacati, le cooperative, contro cui Renzi si è scagliato con un risentimento degno di miglior causa.
Per questi motivi le opposizioni interne e quelle sindacali coglieranno la palla al balzo per chiedere una autocritica nella gestione del partito e nella politica del governo, riconducibili alle decisioni e i comportamenti di una sola persona, Renzi. Se volesse dimostrare di essere un leader di sinistra, come pure è tornato a ripetere nella lettera a Repubblica, il presidente-segretario avrebbe una buona, ottima occasione per dimostrarlo. Riconoscendo i propri errori, mostrandosi meno arrogante, dando segnali di volontà di dialogo, non di scontro. Non credo che questo avverrà, come del resto già risulta già dal suo commento al voto («affluenza problema secondario»). Un atteggiamento di sottovalutazione, di attacco ai soliti gufi incapaci di riconoscere la vittoria di due governatori a zero, in realtà un tono difensivo di chi minimizza il colpo confermando un pensiero da perfetto qualunquista.
Tutti gli altri risultati elettorali, dal raddoppio leghista al dimezzamento di Forza Italia, al ridimensionamento dei 5Stelle (in queste proporzioni se commisurati alle elezioni europee), sono anch’essi gravidi di segnali sui possibili sviluppi futuri della scena politica italiana.
Di sicuro il centro-destra, se si volesse ragionare in termini generali, appare frantumato, debole. Con un Berlusconi ormai incapace di salire su qualsiasi predellino, c’è una buona probabilità che di quei voti conservatori ne faccia man bassa il giovane d’assalto Salvini, l’unico che può esultare dopo il voto di domenica.
E a sinistra? Sarebbe stato auspicabile, come reazione alla svolta moderata del presidente-segretario, uno smottamento di voti. Non è stato così. Le forze unite di Sel, Rifondazione e Altra Europa, alle europee avevano raccolto 94mila voti. Oggi, divise, ne hanno persi più di 10mila. Sommando il 4 per cento ottenuto dalla candidata della lista Tsipras al 3 preso dal Sel in coalizione si arriva al 7 per cento. Troppo poco per poter incidere davvero.
Non possiamo sapere se l’unità avrebbe prodotto una percentuale a doppia cifra. Ma è certo che anche a sinistra la divisione favorisce l’astensione. Soprattutto tra chi è ormai stanco di assistere sempre alla stessa replica.
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